A fronte della sentenza della Corte costituzionale n. 10/2024 in materia di colloqui intimi in carcere, abbiamo intervistato Silvia Talini, Prof.ssa in Diritto costituzionale e titolare degli insegnamenti “Diritti dei detenuti e Costituzione” e “Clinica legale penitenziaria” presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma Tre. Tra i punti emersi dalla conversazione, non soltanto una definizione di “diritto all’affettività ristretta”, ma anche il suo «nesso d’interdipendenza con il finalismo rieducativo delle pene» e uno snodo fondamentale della sua realizzazione: nonostante la profonda necessità di una ridefinizione degli spazi detentivi, l’assenza di uno stanziamento di fondi «non potrà rappresentare un “alibi” per la negazione del diritto»


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Prof.ssa Talini, cosa s’intende per diritto all’affettività ristretta?

S’intende, in primo luogo, la necessità che la persona ristretta, durante il suo percorso nell’esecuzione penale, mantenga costanti contatti con i preesistenti legami affettivi e familiari. La riflessione attorno a questa sfera, mi preme ricordarlo, assume una particolare rilevanza in quanto le conseguenze derivanti da un distacco forzato dalla propria sfera affettiva sono un problema non solo di natura medica, antropologica e sociologica ma anche, e forse soprattutto, una questione giuridica, incidendo su una posizione della persona direttamente protetta dalla nostra Costituzione (artt. 29, 30 e 31). È bene poi precisare che parliamo di un diritto estremamente complesso, che potremmo definire a conformazione “plurima”: pensiamo, per esempio, alla tutela della filiazione, della genitorialità e della sfera intima e sessuale. Si tratta, naturalmente, di situazioni estremamente diversificate, ma tutte funzionalmente rivolte ad apprestare effettiva protezione alla dimensione affettiva; dimensione che, all’interno dell’esecuzione penale, assume una posizione di particolare preminenza in vista della ricostruzione del percorso individuale del ristretto, che deve consentire, stante il dettato costituzionale, un reinserimento nella società (art. 27, co. 3, Cost.). Questo nesso d’interdipendenza che lega il diritto all’affettività al finalismo rieducativo delle pene è chiaramente testimoniato da diverse disposizioni della nostra legge sull’ordinamento penitenziario, tra le quali, mi limito a ricordare, l’art. 15 o.p., che impone un trattamento del condannato volto ad agevolare opportuni contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia, e, in modo ancora più incisivo, l’art. 28 o.p., secondo cui nel corso dell’esecuzione particolare cura dev’essere dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le famiglie. La normativa, dunque, non impone esclusivamente di mantenere i legami familiari, ponendo in capo all’esecuzione penale un compito ben più ampio e arduo: il miglioramento o il ristabilimento di questi rapporti.

Recentemente la Corte costituzionale, con la sentenza n. 10/2024, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia. Quali saranno, secondo Lei, gli effetti concreti di tale pronuncia?

La Corte ha compiuto una scelta davvero coraggiosa che avrà il graduale effetto di garantire un diritto, quello all’intimità-sessualità intramuraria, fino ad oggi completamente negato all’interno delle mura penitenziarie, a differenza di quanto avviene nella maggior parte delle legislazioni dei paesi dell’area comunitaria e la cui assenza incideva, come i giudici ricordano, anche sulla sfera giuridica dei partners. La sentenza ha, quindi, il merito di superare un evidente paradosso normativo a rilevanza costituzionale perché, se per un verso, come detto, la protezione del diritto all’affettività è funzionale alla realizzazione del finalismo rieducativo imposto dalla Costituzione, per l’altro, il silenzio della normativa penitenziaria impediva, in modo automatico e assoluto, la garanzia di una sua essenziale sfera, quella all’intimità-sessualità. A questo proposito, la Corte ben ribadisce come la sfera intima, nella società libera come nelle carceri, non possa mai essere disgiunta da quella affettiva. Se, analogamente ad altri diritti, la reclusione può certamente determinare una differenziazione nelle modalità di godimento, la protezione costituzionale offerta alla dignità del detenuto impone un divieto inderogabile: adottare limitazioni o, come in questo caso, addirittura negazioni, non giustificate da puntali, concrete e attuali esigenze di ordine e sicurezza. Occorre ribadire che sarebbe stato auspicabile, anziché una sentenza della Corte costituzionale, un intervento legislativo, anche a fronte del precedente monito del Giudice delle leggi (sent. n. 301/2012), completamente ignorato da tutte le forze al governo negli ultimi dodici anni. Il problema, dunque, sarà ancora una volta quello di monitorare l’effettiva garanzia del diritto in fase applicativa.

Lei crede che, in Italia, l’effettività del diritto all’affettività ristretta sia legata esclusivamente al fattore dell’edilizia penitenziaria?

La riflessione sul diritto all’affettività-intimità si colloca certamente all’interno dell’ampio dibattito sugli “spazi della pena”, ma non si esaurisce in una riflessione unicamente riguardante l’edilizia penitenziaria. Ciò che va potenziato, come la Corte più volte ribadisce nella sentenza n. 10/2024, è il ruolo di assoluta centralità che devono assumere le autorità amministrative nella realizzazione del disegno costituzionale, come peraltro recentemente messo in luce anche dai lavori della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario (2021). Dunque, se è evidente che una serie di interventi strutturali andranno compiuti per garantire una sempre maggiore tutela del diritto all’intimità all’interno di tutte le strutture penitenziarie (anche di piccole dimensioni), è altrettanto vero che molto può essere fatto anche attraverso l’immediata adozione, da parte dell’amministrazione, di decisioni di natura gestionale che si muovano nella direzione indicata dai Giudici costituzionali. Con questo non voglio certamente negare la necessità di uno stanziamento di risorse rivolto anche alla ridefinizione degli spazi detentivi in vista di una sempre maggiore garanzia del diritto all’intimità; tuttavia, la sua assenza (come quella del legislatore) non potrà rappresentare un “alibi” per la negazione del diritto. Dunque, se un periodo di assestamento graduale sarà fisiologico – e la stessa Corte ne ben è consapevole –, è altrettanto vero che questo tempo dovrà essere necessariamente limitato e la garanzia del diritto effettiva, pena l’illegittimità della negazione.

Sempre la Corte invita l’amministrazione penitenziaria all’ipotesi di una “creazione all’interno degli istituti penitenziari di appositi spazi riservati ai colloqui intimi tra la persona detenuta e quella ad essa affettivamente legata”. A tal proposito, risulta doveroso ricordare la Casa per l’affettività e la maternità (Ma.Ma), presente nel carcere femminile di Rebibbia. Di cosa si tratta nello specifico e come potrebbe legarsi a quanto pronunciato dalla Corte?

Il progetto Ma.Ma rappresenta un ottimo esempio di quelle scelte gestionali che si muovono nella direzione di una diretta attuazione dei principi costituzionali da parte delle autorità amministrative. Si tratta del “Modulo per l’affettività e la maternità”, realizzato nell’ambito del Progetto G124 dell’architetto Renzo Piano, che consente alle madri detenute d’incontrare i propri figli in un ambiente progettato per riprodurre, quanto più possibile, quello domestico e familiare. È un progetto importante, realizzato ben prima degli ultimi approdi della giurisprudenza costituzionale e che, tra l’altro, ha concretizzato un principio, spesso ignorato, contenuto nelle Regole Penitenziarie Europee, secondo cui le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali. Il progetto, inoltre, si muove anche nella direzione di riempire di contenuto la previsione secondo cui i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ingresso dell’istituto (art. 18 o.p.). Una disposizione, questa, introdotta nel 2018 e che oggi, alla luce della sentenza n. 10 del 2024, assume una nuova rilevanza. Anche se, sotto l’ultimo profilo, non posso non mettere in luce un aspetto, a mio avviso, critico della pronuncia: il divieto di contemporanea presenza di più persone durante l’incontro intimo che, afferma la Corte, dovrà svolgersi unicamente con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona stabilmente convivente. Ciò, evidentemente, porta ad escludere che questi incontri riservati potranno svolgersi con la contestuale presenza del partner e dei figli. Al di là della questione su cui, credo, si dovrà tornare a riflettere, l’auspicio è che esperienze come quella del carcere femminile di Rebibbia in relazione alla genitorialità o, nelle ultime settimane, la sperimentazione proposta nel carcere di Padova proprio in riferimento all’intimità, siano sempre più diffuse all’interno delle mura penitenziarie.


*foto ricavata dall’articolo “Già tre morti dall’inizio dell’anno: nelle carceri c’è bisogno di medici e psicologi” pubblicato su Padovatoday