Da un po’ di tempo, la figura di Antonio Gramsci è oggetto di nuove attenzioni, non solo accademiche. Noi gli diamo le nostre, proponendo ai nostri lettori qualche riflessione giovanile sulla giustizia, a riprova, a distanza di più di un secolo, dell’originalità del pensiero del filosofo sardo.
Siamo testimoni, da qualche tempo, di quella che qualcuno ha chiamato Gramsci-Renaissance. Oggi, come forse mai prima d’ora, il pensiero del filosofo sardo è oggetto di una popolarità che oltrepassa i confini nazionali e le barriere ideologiche: dai cultural studies, per il cui sviluppo è considerato un pensatore centrale, al sovranismo di Marion Maréchal-Le Pen, che invita la destra a farne propri gli insegnamenti. Il tema è complesso e intellettualmente seducente, e alle migrazioni accademiche e politiche di Gramsci sono dedicate diverse monografie.
Al di là dell’affidabilità dei prestiti, della pertinenza dei concetti mutuati dallo sfortunato filosofo e della ritualità con cui sono evocate alcune fortunate formule, questa Gramscimania non ha risvegliato, neanche nei patrii confini, troppa attenzione su ciò che Gramsci scriveva al tramonto dei suoi vent’anni in materia di giustizia.
Al pensiero di quel Gramsci più che ventenne di cui parliamo, cioè quello precedente all’esperienza dell’Ordine Nuovo, ha dedicato un importante saggio Luciano Rapone, intitolato “Cinque anni che paiono secoli“, uscito ormai qualche anno fa per i tipi di Carocci. Di questo saggio esiste anche una recensione assai esaustiva di Paolo Mieli, che ben sintetizza le simpatie del Gramsci di allora, e alla quale rimandiamo i curiosi.
Certamente non è questo il luogo adatto ad interrogarsi o provare a descrivere concezioni o teorie del diritto, implicite o esplicite, riconducibili all’opera di Gramsci, al suo pensiero oppure alla sua prassi di militante e dirigente politico. Vale però la pena rileggere queste poche gustose pagine che dimostrano una sensibilità tutt’altro che banale per i temi della giustizia.
In un articolo pubblicato il 10 settembre 1917, Gramsci commentava la proposta comparsa sul Corriere della Sera di affiancare alla tessera annonaria per il pane una “tessera per la libertà”. Il pensatore sardo, allora giornalista dell’Avanti, riteneva che la tessera avrebbe dovuto garantire i seguenti diritti:
“1. Un cittadino italiano che venga arrestato, non può per più di dieci giorni essere tenuto all’oscuro sulle cause del suo arresto, ma deve entro dieci giorni essere condotto dinanzi al suo giudice naturale, e riottenere la sua libertà anche se provvisoria.
2. L’arresto preventivo è mantenuto solo per gli accusati di colpe gravissime – quando gli indizi della colpevolezza siano tali da fare apparire probabilissima la condanna – e non deve essere prolungato per un termine superiore alla misura minima della condanna.
3. Gli agenti, i giudici, i carcerieri, per colpa dei quali un cittadino viene arbitrariamente privato della libertà, sono tenuti a pagare al malcapitato una indennità in solido ciascuno di lire diecimila, da scontarsi in tanti giorni di prigione in caso di insolvibilità, con iscrizione nella fedina penale, rimozione dall’impiego e perdita dei diritti civili per cinque anni.”
Gramsci ragazzo, ricorda Mieli, è fan di cose inglesi, dello scoutismo di Baden-Powell e dell’habeas corpus.
È inoltre curioso notare, con gli occhi dei posteri, come è proprio sul tema della responsabilità dei magistrati (ovvero il terzo punto della “tessera della libertà” ideata da Gramsci) che si è formata, nel tempo, una saldatura politica tra una parte della sinistra e la fetta più corporativa della magistratura. E che è invece sul secondo punto, mutatis mutandis, che il partito fondato da Gramsci pensò di cambiare orientamento, degradando la libertà personale di fatto a un concetto negoziabile (l’ordine pubblico, l’unità nazionale), e arrivando a ritenere l’abrogazione della legge Reale una roba da fascisti e mafiosi. E che magari possiamo anche dire che Gramsci volava alto con le pretese, ma i dati sui magistrati condannati dal 1989 (anno di entrata in vigore della Legge Vassalli) e il 2012 si contano sulle dita di una mano (nel senso che sono solo 5).
In un altro articolo, intitolato “Pregiudicati!” e pubblicato nella rubrica Sotto la mole il 2 agosto 1916, Gramsci se la prende con la faciloneria di alcuni pubblici ministeri dell’epoca, definiti “commedianti in toga” e “barbassori del diritto”, sottolineandone soprattutto il senso di irresponsabilità e una certa propensione al Blitzprocess, il processo lampo privo di garanzie, in netta contrapposizione con l’impostazione liberale del codice Zanardelli.
“Trenta minuti di discussione, quattro processi per direttissima, quattro condanne, quattro nuovi pregiudicati. Anche i loro nomi sono ignoti ai giudici fino all’ultimo momento decisivo. La preoccupazione maggiore è di sbrigarsela in fretta, di poter uscire dall’aula fetida, di respirare. Nessun senso di responsabilità. Il Pubblico ministero che, secondo i sacri principî dell’89, tutela la collettività e deve parlare in nome di tutti per il diritto che tutti hanno di vivere tranquilli, chiacchiera con un vicino; quando viene il suo turno domanda un nome, scorre un rapporto di polizia, ricorda un articolo del codice, e bolla. Il suo dovere, secondo lui, è di condannare sempre. La polizia ha già condannato; contraddire alla polizia richiederebbe uno sforzo, domanderebbe una persuasione.”
Il testo più particolare è però una difesa della figura di Ponzio Pilato, marcato per la sua infamia dai Vangeli ed invece qui fatto oggetto di una interessante riabilitazione. Gramsci scrive infatti che Pilato è stato persino “un giudice eroico”, perché “non ha voluto soverchiare, non ha voluto prevaricare, neppure per obbedire all’impulso della propria coscienza di individuo, di privato cittadino” che riteneva Gesù innocente.
In contrapposizione alla “canea dei farisei e dei pubblicani, [Pilato] si rifiutò di giudicare Gesù Cristo e lo rimandò sempre a Erode” perché “le accuse a Gesù mosse non erano contemplate dalla legge romana, non erano reati di Stato.”
Per Gramsci, Pilato, rimettendosi più volte all’autorità imperiale che gli negava la giurisdizione sui reati di ordine religioso, è un giudice indipendente in un ordinamento giuridico ritenuto persino liberale. All’indipendenza del potere giudiziario il giovane Gramsci riconosce grande importanza: “è stata una delle più grandi garanzie di giustizia che l’uomo moderno sia riuscito a conquistare.” Insomma, niente a che vedere con Krylenko e Vyshinskij. Ai farisei della Galilea del I secolo, Gramsci affianca quelli dell’Italia a lui contemporanea (e noi possiamo affiancarci i nostri), che, assetati dal desiderio di crocefissione e dall’ossessione punitiva, cercano di imporre alla magistratura “una linea di condotta diversa da quella fissata dalla legge”, domandando “che le poche garanzie di libertà che la legge italiana accorda ai cittadini siano violate”.
Non possiamo non pensare a quale sarebbe stato il giudizio di questo Gramsci del ‘17 sul rito mediatico-televisivo, sulla cronaca giudiziaria tra il fotoromanzo e il tabloid, sulle vite degli imputati ridotti a pornografia, sulla sistematica violazione del segreto istruttorio a fin di bene (e cioè a favor di prima pagina), sulla mediatizzazione di alcuni pubblici ministeri, sulle cattive abitudini in materia di intercettazioni, sulla corsa della politica e dei media alla spettacolarizzazione delle pene, sul processo lampo in diretta televisiva (ormai anche al citofono), in cui le esigenze della tutela delle garanzie individuali cedono il passo all’appetito dei nuovi lapidatori.
Cosa direbbe il ventenne che sognava la tessera della libertà delle decine di migliaia di persone ancora oggi ospitate nelle patrie galere in attesa di giudizio? Cosa scriverebbe della guerra televisiva alle scarcerazioni il Gramsci che lodava Pilato perché giudice indipendente?
Qualche anno dopo, in “Essenza e valori della democrazia“, Hans Kelsen propose Pilato come figura liberale e democratica, perché animato da uno scetticismo che si contrapponeva all’assolutismo di Gesù Cristo.
Quella che, semplificando, è una dimostrazione dei paradossi della democrazia – la condanna plebiscitaria di un innocente – è, per il giurista austriaco, anche il terreno di scontro tra la verità assoluta di Gesù e il relativismo tollerante di Pilato, che, dubbioso, chiede a Cristo: “che cos’è la verità?”. Una vera e propria professione di laicità del decisore. Mica male.
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