Pubblichiamo con grande piacere un importante contributo del Professore Gaetano Insolera sul discusso e ormai annoso tema del reato di abuso d’ufficio. Gateano Insolera è ordinario di Diritto penale nella facoltà di Giurisprudenza dell’Alma Mater Studiorum- Università di Bologna e avvocato penalista nel Foro di Bologna. Già membro del consiglio direttivo nazionale dell’ Unione camere penali italiane e del direttivo della Associazione italiana Professori di diritto penale, attualmente fa parte del direttivo del Centro studi giuridici e sociali “Aldo Marongiu” dell’ Unione Camere penali Italiane. Ha collaborato con il quotidiano Il Mattino, affrontando temi di attualità in materia di giustizia penale.

1. Notavo, una decina di anni fa ( Riv. It. dir. proc. pen. 2011, 584 ss.), come con l’espressione criminalità politico-amministrativa, ci si riferisse ormai, in termini assai generali, al fenomeno costituito dall’intreccio di interessi tra attività economiche, funzioni amministrative e classe politica, con un reciproco condizionamento illecito, sia a livello centrale, sia nel contesto delle autonomie locali. Il concetto si definisce e diviene di uso comune a partire dagli avvenimenti universalmente sintetizzati nel lemma “tangentopoli”. E’ a partire da quel contesto che accanto alle analisi sulla implosione del sistema dei partiti che avevano operato nella c.d. prima Repubblica, sul progressivo accrescimento del ruolo e del peso delle iniziative giudiziarie (la supplenza per altro non era affatto sconosciuta alla nostra precedente realtà politica), si sviluppa un vivace dibattito. Esso riguarda: a) l’adeguatezza della strumentazione penalistica volta a contrastare la cd. “corruzione sistemica” (altro termine che vede la propria affermazione in quel periodo, designando lo stabile insediamento di forme di prevaricazione o di mercimonio delle pubbliche funzioni, spesso connessi alla vita politica ) ; b) la definizione di un più netto confine tra sfera riconducibile alla discrezionalità amministrativa e “sindacato” esercitabile dall’autorità giudiziaria penale. Quest’ultima questione venne affrontata e, in parte, risolta con una riforma penalistica “condivisa” politicamente: la formulazione dell’art. 323 c.p. introdotta nel 1997, fu intesa a precisare la struttura oggettiva dell’abuso di ufficio, escludendo dal raggio dell’incriminazione l’eccesso di potere; al dolo specifico si sostituì quello intenzionale, polarizzato sugli eventi che così debbono verificarsi, indicati dalla nuova formula. Nonostante la chiara dizione normativa non sono mancate, sia in letteratura sia in giurisprudenza, voci che hanno cercato di recuperare le formidabili prestazioni, in linea con interferenze del potere giudiziario nell’ambito della discrezionalità amministrativa, fatte salve dal vecchio abuso d’ ufficio. La riforma dell’abuso resistette tuttavia: la prima questione – quella della inadeguatezza della normativa “anticorruzione”, al contrario, ha continuato a dominare la scena, con analoga condivisione politica, producendo un profluvio di interventi di riforma amministrativi e penali. L’ acme, per ora, nella riforma populista intitolata alla ramazza, nel 2019, con l’ equiparazione della criminalità politico-amministrativa a quella mafiosa. Ma sono storie note. Quanto all’ abuso di ufficio classe 1997, nonostante ripetuti tentativi di attrarlo nel vortice eticizzante dei delitti “di tipo corruttivo”, quella riforma – si è detto – ha resistito: con una precisazione però. Contro l’ intento legislativo di dare determinatezza alla condotta incriminata, escludendo dal raggio dell’incriminazione l’eccesso di potere, si è messa all’ opera una dilatazione giurisprudenziale, volta a stabilizzare un’ interferenza giudiziaria nell’esercizio della ineliminabile discrezionalità della pubblica amministrazione. E’ così ben nota la vanificazione della maggiore determinatezza impressa all’art. 323, operata principalmente con il richiamo all’art. 97 Cost., quale parametro legale di qualificazione della condotta.

2. Oggi l’ intervento sulla disposizione contenuta nell’ art. 23 del decreto potrebbe così trovare consenso: sembrerebbe muoversi in una direzione opposta a quella ormai rintracciabile nel “diritto vivente”. La banalità a volte riesce ad essere efficace: in questo caso mi viene in mente come le vie dell’ inferno siano lastricate di buone intenzioni. Il gesto normativo in questione può avere il sapore di una rivendicazione di immunità che, da un lato, potrebbe apparire coerente con gli intenti di chi, nell’ attuale, torbida, temperie politica si propone una stabile guida del paese, con un esecutivo sempre più forte e un Parlamento meramente esornativo. Dall’ altro, anche sulla spinta di una prevedibile opposizione giudiziaria la riforma sarà in grado di fomentare richieste di controllo costituzionale. Le censure di irragionevolezza troveranno anzitutto facile terreno nella rozza tecnica normativa a cui si è fatto ricorso: accanto alla soppressione del contrasto con fonti normative regolamentari – notoriamente indispensabili, purtroppo, nel dare esecuzione alle opzioni legislative – si è fatto soprattutto ricorso ad un lessico che, volendo introdurre slogan politici, cozza con dati di realtà. Quali sono atti amministrativi che non implichino margini di discrezionalità? Sono immaginabili regole di condotta imposte al pubblico agente espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge? Ancora, è ragionevole l’ equiparazione, in punto, conseguenze punitive, determinata dal mantenimento della clausola generale dell’omessa astensione? Scrivere norme rese appetibili con l’ utilizzo di slogan è una tecnica normativa che ha ormai preso piede: basti pensare alla riforma della legittima difesa “domiciliare”. Io penso che comunque se questa tecnica può dare frutti nella propaganda politica, ben difficilmente è in grado di contenere l’attivismo giudiziario – nel bene e nel male. Gli ultimi anni ci hanno abituati, ma non assuefatto, a quello che in altra occasione ho definito l’ avvelenamento dei pozzi del diritto penale, ma voglio essere compreso: del diritto penale liberale. Anche dando credito alle migliori intenzioni, il veneficio può avvenire: quando per inseguire la certezza del diritto si fa a pugni con i fatti, scivolando poi, necessariamente, in aggiustamenti frutto della inesauribile capacità della giustizia di scopo. Meglio, molto meglio, mantenere la formula del 1997, provando a darne una interpretazione autentica, che escluda il riferimento ad una norma costituzionale evidentemente di mero indirizzo e destinata al legislatore, non al singolo giudice, come tale estranea alle intenzioni di quel legislatore, animato dalla opposta volontà di precisare finalmente la condotta punibile e il confine tra intervento penale e discrezionalità amministrativa. Forse si può ribaltare il controverso detto: quod non fecerunt barberini fecerunt barbari.