Secondo l’art. 1, co. 1, del D.L. 28 gennaio 2019 n. 4, il Reddito di cittadinanza è “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, […]”. Allora, per quale motivo il Rdc non può essere concesso proprio ai soggetti che, in seguito alla detenzione patita, più avrebbero bisogno di aiuto per reinserirsi nel mondo del lavoro ed evitare il rischio di emarginazione, così da scongiurare un’ ipotetica recidiva? Si nota, in questo modo, una contraddizione in coloro che dapprima invocano la certezza della pena (erroneamente intesa come certezza ed immodificabilità della pena carceraria), ma poi continuano a chiedere una punizione per chi l’ha scontata interamente.

Con cadenza ormai periodica, si scatenano polemiche per la concessione del reddito di cittadinanza a soggetti condannati in passato per reati di particolare allarme sociale e, pertanto, non ritenuti degni di ricevere alcun aiuto dallo Stato. La stessa normativa introduttiva del Rdc ha previsto dei limiti in tal senso, ritenuti però insufficienti da molti. L’art. 2, co. 1, lett. c-bis), del D.L. 28 gennaio 2019 n. 4, convertito con modificazioni dalla L. 28 marzo 2019 n. 26, indica, tra i requisiti per la richiesta del beneficio, l’assenza di condanne definitive- nello specifico, intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta- per i delitti legati al terrorismo o alla criminalità organizzata, oltre che per il delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.Inoltre, non avrebbero diritto al Rdc anche coloro che hanno subìto la pena accessoria dell’ interdizione dai pubblici uffici, in forza dell’art. 28, co. 2, c.p. secondo cui l’interdizione perpetua dai pubblici uffici priva il condannato degli stipendi, delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico.

Al di là delle critiche sull’utilità e la sostenibilità finanziaria del Rdc (condivise da chi scrive, ma non pertinenti al tema di questo intervento), è necessario interrogarsi sulla opportunità e sulla legittimità della scelta del legislatore di escludere dalla misura alcune categorie di persone sul solo presupposto di aver subìto una condanna. Secondo l’art. 1, co. 1, del D.L. 28 gennaio 2019 n. 4, convertito con modificazioni dalla L.28 marzo 2019 n. 26, il Rdc è “misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, nonché diretta a favorire il diritto all’informazione, all’istruzione, alla formazione e alla cultura attraverso politiche volte al sostegno economico e all’inserimento sociale dei soggetti a rischio di emarginazione nella società e nel mondo del lavoro”. Per quale motivo, allora, il Rdc non può essere concesso proprio ai soggetti che, in seguito alla detenzione patita, più avrebbero bisogno di aiuto per reinserirsi nel mondo del lavoro ed evitare il rischio di emarginazione, così da scongiurare una ipotetica recidiva? La finalità della pena, secondo il dettato della nostra Carta fondamentale, è quella di tendere alla rieducazione del condannato. Di recente, con la sentenza n. 149 del 2018, la Corte costituzionale ha sancito la non sacrificabilità di tale funzione sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena, ribadendo che essa va intesa come fondamentale orientamento della pena all’obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella società. È paradossale che il condannato, dopo aver espiato la pena volta al suo reinserimento nella società, non possa per legge usufruire degli strumenti previsti dall’ordinamento proprio per favorire l’inserimento sociale dei soggetti a rischio emarginazione.

Ancor più preoccupanti delle contraddizioni del legislatore sono gli umori e le dichiarazioni di politici, commentatori, cittadini che gridano allo scandalo per la concessione del Rdc a soggetti condannati in passato per alcuni reati. Sintomi di una concezione diffusa che vede il condannato come un cittadino di serie b, indegno di vivere nella società e privo di ogni diritto. Non basta espiare la pena per chiudere i conti con il passato e poter ricominciare; una sola condanna è sufficiente a marchiare per sempre una persona che perderà la sua individualità e sarà identificata con il reato commesso divenendo delinquente a vita. La funzione rieducativa viene sacrificata in nome dell’afflittività della pena, unica finalità concepita ed invocata. In questo modo, il reinserimento sociale viene respinto e contrastato, favorendo invece la marginalità e la recidiva. Se i soggetti che hanno commesso un reato ed hanno scontato la propria condanna non riescono a trovare un lavoro, non ricevono alcun aiuto dallo Stato e vengono considerati dei reietti della società, allora non potranno che ritornare a delinquere, non avendo alcuna alternativa lecita per vivere in società. Si nota, così, una contraddizione in coloro che dapprima invocano la certezza della pena (erroneamente intesa come certezza ed immodificabilità della pena carceraria), ma poi continuano a chiedere una punizione per chi ha scontato interamente la pena. Soltanto l’ergastolo, quale pena unica per ogni reato, potrebbe forse saziare la sete di punizione di costoro. Se il condannato resta tale a vita, infatti, merita una punizione perpetua ed infinita. Si tratta di una concezione della pena e del diritto penale intrisa di sadismo e di sete di vendetta, che si appaga soltanto con la sofferenza del condannato. La conseguenza è la perdita di legittimità e credibilità dell’intero sistema. Qualsiasi pena comminata da un giudice sarà sempre ritenuta troppo tenue dalla opinione pubblica. Il condannato non espierà mai definitivamente la sua condannata che lo perseguiterà a vita. Il dettato costituzionale non sarà mai pienamente condiviso dai consociati. Fino a quando reggeranno gli ultimi baluardi dello Stato di Diritto, prima di essere travolti dal giustizialismo dilagante?