Stefano Canestrari, “Ferite dell’anima e corpi prigionieri. Suicidio e aiuto al suicidio nella prospettiva di un diritto liberale e solidale” (Bononia University Press, Bologna 2021, 76 pp.)

Per un’autentica disamina del tema del “fine vita” non può che muoversi dalle «cose ultime»: non soltanto, vale a dire, le questioni fondamentali dell’esistenza umana foriere di una scelta tanto intima quanto sofferta; ma altresì le recenti pronunce e riflessioni – quali tentativi di riordino della materia – della giurisprudenza costituzionale italiana e tedesca, ultima tappa di un lungo percorso iniziato nel solco di una maggiore attenzione al “fine vita” e non ancora giunto a conclusione. Di qui l’analisi, suggestiva e profonda, della recente opera del Prof. Stefano Canestrari, Ordinario di Diritto penale presso l’Università di Bologna e Membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. La viva voce dell’Autore non manca di ripercorrere, nell’ottica ponderata del giurista penalista, le parole e i concetti sul tema fin qui accumulati, spingendosi infine a proporre nuovi e importanti spunti di riflessione nella prospettiva di una prossima, analitica regolamentazione della materia. Tutto ciò nella consapevolezza che il (bio)diritto penale non può, da solo, ricoprire il ruolo di “Atlante” delle dinamiche del “fine vita”, sorreggendone il peso intero sulle proprie spalle; piuttosto, nel dialogo e nel confronto con altri e diversi saperi – discipline mediche, psicologia, psicoanalisi – deve invece concorrere all’autentica tutela di quei beni (come la vita e l’autodeterminazione) che, per sua natura, è chiamato a presidiare.


Non «gemelli congiunti», ma «lontani parenti». (L’aiuto al) suicidio e (il) suicidio medicalmente assistito nella prospettiva liberale.

È quasi l’immagine di un caso medico ben noto al biodiritto penale [1] l’argomento offerto in apertura dall’Autore che, subito in medias res, procede ad un distinguo «necessario e urgente». Suicidio e suicidio medicalmente assistito non sono «gemelli congiunti», inscindibili e impossibilitati a vivere l’uno senza l’altro, e neppure fratelli: sono invece «lontani parenti», i quali «si ribellano ad una “convivenza forzata”» e tuttavia ancora imposta. 
Quanto al “classico” (aiuto al) suicidio, deve muoversi da sofferenze esistenziali dell’uomo, da vere e proprie «ferite dell’anima», certo non nuove alla prospettiva del diritto penale, che sanzionava il suicidio già in diritto romano e poco più tardi – nell’ottica cristiana dell’intrinsece malum – in diritto medievale. Solo recentemente, sulla scia degli insegnamenti del Beccaria e del Carrara, se ne è affermata la “non punibilità”, fenomeno «che peraltro oggi trova riscontro in tutte le moderne legislazioni penali». Così in Italia, ove anche la più recente stigmatizzazione del suicidio nel periodo dominato dalla matrice ideologico-solidaristica del regime illiberale fascista, è stata infine superata dalla promulgazione dell’attuale Carta costituzionale. Eppure, ripercorrendo le tappe che ne hanno segnato la storia e l’evoluzione, l’Autore esclude con forza di poter oggi valutare il suicidio alla stregua di un diritto inviolabile e garantito (in ossequio a un orientamento dottrinale minoritario), dovendosene piuttosto riconoscere la natura di atto «rientrante in uno spazio di incoercibile libertà» non certo meritevole di sostegno.
Il ragionamento muta con riferimento al suicidio medicalmente assistito, fenomeno «distinto e di più recente emersione» che, in quanto mosso da uno stato patologico irreversibile, non è sovrapponibile al suicidio tradizionalmente inteso né acriticamente identificabile accanto allo stesso, se non con gravi effetti: quelli di porre «non […] l’individuo, ma il suo disturbo, al centro della questione».
Secondo l’Autore, non può invero utilizzarsi il concetto di suicidio medicalmente assistito per alterare le sembianze del suicidio tout court e neppure per condurre il giurista a un giudizio di apprezzamento su quest’ultimo, “capovolgendosi” altrimenti in modo inaccettabile la prospettiva – tuttora accolta dall’ordinamento e dalla letteratura maggioritaria – di relegamento della “classica” condotta suicida nell’ambito delle mere facoltà o libertà di fatto.
Proponendosi come un leitmotiv lungo il corso dell’opera, la distinzione tra le due forme di suicidio appare dunque centrale nella prospettiva dell’Autore. Essa, tuttavia, pur solo in parte riconosciuta dal recente arresto giurisprudenziale della Corte costituzionale italiana in tema di aiuto al suicidio – e per nulla considerata dall’altrettanto recente pronuncia del Bundesverfassungsgericht tedesco – si è inesorabilmente scontrata con norme penali riferite nei due ordinamenti (in modo generalizzato) ad una sola tra le due figure del suicidio “tradizionale” e dell’assistenza medica al suicidio, con esiti inevitabilmente deludenti.

Il “fine vita” nel “diritto vivente”: le pronunce «inevitabilmente infelici» della Corte costituzionale italiana e del BVerfG tedescoa confronto.

L’opera muove così ad analizzare le motivazioni con cui i giudici costituzionali italiani e tedeschi si sono pronunciati sul tema del “fine vita”.
Quanto ai primi, l’Autore, richiamando anche un suo altro approfondito contributo [2], propone una riflessione critica delle argomentazioni della celebre sentenza 242/2019 (preceduta dall’ordinanza n. 207/2018): come noto, la pronuncia additiva di principio, pur riconoscendo la ratio di un generale divieto di aiuto al suicidio, ha delimitato «una circoscritta area di non conformità costituzionale dell’art. 580 c.p.» nella previsione di quattro ipotesi, nelle quali si identifichi l’aspirante suicida [3], «strettamente connesse alle peculiarità del caso Antoniani-Cappato» al vaglio della Corte.
In ciò, come l’Autore evidenzia, il Giudice delle leggi rivela – in modo «inevitabilmente infelice» – di non aver accolto l’impostazione di fondo della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Assise di Milano, relativa alla centralità dell’autodeterminazione nella scelta suicida, da parte dell’individuo, e della mera attuazione della sua volontà, da parte dell’agente “agevolatore”. Inoltre, la sentenza 242/2019 è costretta ad assorbire l’aiuto medico a morire nell’orbita del dialogo sulla rilevanza penale di istigazione e aiuto al suicidio.
«Inevitabilmente infelice» si dimostra, secondo l’Autore, anche la sentenza del Secondo Senato del Bundesverfassungsgericht (BVerfG) del 26 febbraio 2020. Di fronte al “nuovo” § 217 StGB, introdotto dal legislatore tedesco nel 2015 con l’intento di sanzionare penalmente l’agevolazione commerciale al suicidio, la pronuncia, impossibilitata a darne un’interpretazione costituzionalmente orientata, ne dichiara in modo prorompente l’incostituzionalità – vanificando la norma «l’esercizio del «diritto a una morte autodeterminata» per coloro che intendono ricorrere all’aiuto di terzi nell’attuazione del suicidio» [4]. Pur consapevoli del rischio di una «normalizzazione sociale» del suicidio assistito (la cui offerta commerciale è infatti sanzionata dallo StGB quale illecito di pericolo astratto contro la vita e l’autodeterminazione), i Giudici federali pongono in luce l’assenza di riscontri empirici della connessione tra l’opportunità commerciale di aiuto al suicidio e la minaccia arrecata al bene dell’autodeterminazione dell’aspirante suicida.
Di tali riscontri empirici, posti a «passaggio cruciale», l’Autore, nel proprio sguardo oltralpe, si domanda l’opportunità di “trapianto” nell’ordinamento italiano, escludendola tuttavia “alla radice”. Inopportuno deve dirsi, infatti, trasporre in Italia la “capriola concettuale” dell’ordinamento tedesco, da sempre caratterizzato dalla scelta della “non punibilità” dell’aiuto al suicido nelle sue forme tradizionali; qui, il legislatore ha sanzionato l’agevolazione commerciale al suicidio senza neppure porsi il «quesito preliminare» sull’idoneità del divieto penale per prevenire gli abusi nell’ambito delle “classiche” tipologie di suicidio, comunemente innescate dalle sofferenze psicologiche ed esistenziali.
Lungi dall’essere «gemelli congiunti» (né essendo «lontani parenti»), (aiuto al) suicidio “tradizionale” e suicidio medicalmente assistito non sono neppure distinti in Germania, «in quanto il primo(genito) non lo si considera concepito» e rimane un «fenomeno oscuro», occultato nelle pieghe dell’ora incostituzionale § 217 StGB. Le stesse indicazioni regolatorie offerte dal BVerfG al legislatore tedesco in chiusura della sentenza, prospettando la possibilità di una nuova disciplina sul tema, paiono riferirsi alla sola assistenza medica al suicidio, dovendo lo stesso Autore prendere atto – con più di qualche rammarico – che «nessuna riflessione, nessun “pensiero”» vi compare, quanto al “classico” suicidio.

La prova dell’autodeterminazione, tra «ferite dell’anima» e «corpi prigionieri».

Il «vizio di origine» che caratterizza le pronunce esaminate, posizionate “fuori asse”, non può allora che richiedere un nuovo «baricentro», che l’Autore ravvisa nell’«accertamento di una decisione libera e consapevole di un aspirante suicida» –presente, ma imprigionato negli «imbuti normativi» imposti alle riflessioni italiana e tedesca. Tale accertamento, indefettibile nella prospettiva liberale, non è solo da porsi quale priorità assoluta, ma deve misurarsi con il grado di autolesività e di rischio della condotta suicida, forte della sinergia (sostenuta con forza dall’Autore [5]) tra le discipline dedite allo studio del suicidio.
Nell’ambito di questa prospettiva interdisciplinare, l’Autore sostiene che non sia possibile formulare regole per stabilire se e quando il suicidio innescato da sofferenze psicologiche, connotato dal suo «lato d’ombra» e dalla sua aura di mistero, sia «una chiamata di un Sé libero e autonomo». Ancor di più, non appare prospettabile la presenza di un esperto, di un perito capace di valutare in quest’ipotesi una decisione «consapevole, libera e stabile» di richiedere un aiuto al suicidio. In assenza di validi criteri di accertamento per il primo dei due «lontani parenti», non può dunque che condividersi, secondo l’Autore, la sentenza della Corte costituzionale italiana nella scelta di non demolire del tutto la tradizionale incriminazione dell’aiuto al suicidio, strumento utile ad evitare manipolazioni e abusi (peraltro nulla proponendo la sentenza del BVerfG su un giudizio di matrice empirica in ordine alla legittimità dell’intervento penale), riaffermandosi così la ratio del divieto penale in rifermento alle tradizionali «ferite dell’anima»; la cui conoscenza, parziale e limitata, nulla può di fronte a «un’eterna primavera di crescita e un inverno senza fine di depressione e disperazione» insiti in ciascuno.
Tutt’altra valutazione deve condursi per i «corpi prigionieri» che, pur spesso affetti da sofferenze dell’anima, possono ricadere tra gli “indici” descritti dalla pronuncia della Corte costituzionale, tali da configurare «presupposti “oggettivi”» meritevoli di accertamento.
L’Autore rigetta l’idea che la presenza di gravi condizioni patologiche, come delineata dalla Corte, possa impedire di accertare la volontà del malato; al contrario, diviene più agevole identificare «nel medico il soggetto che deve comunque essere coinvolto nella procedura di accertamento», lungo la direttrice di una relazione con il paziente che permetta di addivenire ad una verifica della validità della richiesta di aiuto al suicidio. Le ipotesi di dipendenza da trattamenti di sostegno vitale offrirebbero pertanto una garanzia ulteriore, pur non potendo assurgere a «punto di riferimento “decisivo”» nell’analisi della volontà dell’aspirante suicida.
Vi sono – osserva l’Autore – «complesse e variegate costellazioni di casi», nelle quali persone malate, non dipendendo da trattamenti salva-vita, sarebbero in grado di “uccidersi da sole”. Di fronte a queste ipotesi «chiaroscurali», occorre muoversi con grandissima cautela e prudenza: l’Autore, rilevando da più parti «l’interrogativo se possa ritenersi discriminatorio negare l’assistenza medica al suicidio delle persone malate […] senza che siano, per caratteristiche contingenti della loro patologia, nella condizione di rinunciare al proseguimento di trattamenti di sostengo vitale», pone l’accento sul carattere decisivo di un confronto sul punto tra saperi specialistici nell’ambito di un dibattito pubblico e parlamentare, segnalando con chiarezza i rischi di un «temibile e insidioso abbandono sanitario».
Ciò, peraltro, senza che manchi il suo «ricorrente richiamo a non sottovalutare le difficoltà connesse alla verifica di una decisione “consapevole” e “stabile”», vero assunto di partenza dell’opera. Perché «nell’impostare un confronto tra le diverse posizioni relative all’assistenza medica a morire», afferma l’Autore, «è la validità della richiesta e non solo l’intensità della sofferenza a costituire il presupposto assolutamente imprescindibile». 

Uno sguardo lungimirante. Il ruolo del medico e delle cure palliative nell’autodeterminazione del paziente e nell’aiuto medico a morire.

Nella prospettiva di un simile confronto, l’Autore non manca, infine, di delineare con chiarezza un assunto per addivenire ad una corretta regolamentazione di una materia così complessa e dilemmatica. Affinché possa parlarsi di una richiesta libera e consapevole di un aiuto medico a morire, «aspetto […] di fondamentale importanza» deve ritenersi «la possibilità di un’adeguata assistenza sanitaria», in particolare la possibilità «concreta ed effettiva» (non il dovere) di accedere a tutte le cure palliative praticabili, compresa la sedazione palliativa profonda continua, nonché «diagnosi e terapie psicologiche e psichiatriche». Si tratta di un aspetto già sottolineato nel parere del Comitato Nazionale per la Bioetica del 18 luglio 2019 e particolarmente enfatizzato nella sentenza 242/2019 dalla Corte costituzionale italiana come «pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente» [6]. D’altronde, «la richiesta di assistenza medica a morire non deve mai essere una scelta obbligata» [7], come avverrebbe nel caso in cui la sofferenza fosse insuperabile per la mancanza di supporto e assistenza adeguati. E nella cornice di un contesto medicalizzato, finalmente scisso dal tradizionale (aiuto al) suicidio, un ruolo primario deve essere affidato – lungi da ogni inutile pleonasmo – al medico: custode, prima ancora delle “leges artis” in ambito sanitario, della relazione con il paziente, in cui il medico stesso, con le adeguate modalità di comunicazione e di dialogo, può garantire un’autentica libertà di scelta nelle decisioni di “fine vita”.

*Paolo Beccari è Cultore della materia in Diritto Penale presso l’Università di Bologna


[1] È il caso trattato in S. Canestrari, Principi di biodiritto penale, Bologna 2015, pp. 45 ss.
[2] Cfr. S. Canestrari, Una sentenza “inevitabilmente infelice”: la “riforma” dell’art. 580 c.p. da parte della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. e proc. penale, 2019, pp. 2159 ss.
[3] Cfr. Corte cost., sent. 24 settembre 2019 (dep. 22 novembre 2019), n. 242 (Pres. Lattanzi, Est. Modugno) consultabile in www.cortecostituzionale.it– § 2.3 Considerato in diritto, riprendendo l’ordinanza n. 207 del 2018; in specie, la Corte prevede un’area di non punibilità ex art. 580 c.p. per quei casi in cui «l’aspirante suicida si identifichi […] in una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
[4] Per il testo originale della pronuncia, cfr. BVerfGUrteil des Zweiten Senats von 26 Februar 2020 – 2BUR 2347/2015, consultabile in www.bundesverfassungsgericht.de.
[5] Ex multis, cfr. S. Canestrari e M. L. Caproni, Suicidio e aiuto al suicidio: diritto e psicoanalisi in dialogo, in disCrimen, 27 gennaio 2021.
[6] Cfr. di nuovo Corte cost., sent. 24 settembre 2019 (dep. 22 novembre 2019), n. 242 (Pres. Lattanzi, Est. Modugno) consultabile in www.cortecostituzionale.it – § 2.4 Considerato in diritto.
[7] Cfr. la posizione di S. Canestrari, A. Da Re, § 5, Opinioni etiche e giuridiche all’interno del CNB, Posizione c), in CNB, Riflessioni, pp. 24 ss.