Esiste un caso CSM e, più in generale, un “caso magistratura”: scaricare tutto su Luca Palamara, significa leggere la questione in maniera superficiale oltreché sbagliata. E’ più che mai l’ora di una riforma legislativa e costituzionale dell’assetto dei togati, e di una rivoluzione culturale della categoria. In questi giorni si è creato un intenso dibattito in merito. Qui, abbiamo provato a raccogliere le proposte principali e ad evidenziarne le caratteristiche fondamentali: una bussola per orientarsi tra le possibilità di una riforma della magistratura.

Una necessaria premessa: no al tritacarne mediatico, sì alla riforma

Non apprezziamo mai il tritacarne mediatico. Non apprezziamo mai la pubblicazione di intercettazioni, ancor più se penalmente irrilevanti. Neppure quando i protagonisti sono coloro che ne hanno richiesto a gran voce un’espansione in termini di utilizzabilità, di casi e di modi. Neanche quando colpiscono chi non ha fatto nulla (l’Associazione Nazionale Magistrati) per impedire che strumenti invasivi e potenti come il trojan potessero essere utilizzati con grande disinvoltura e, in più, ha richiesto un utilizzo sempre maggiore e sempre meno tassativo delle intercettazioni (vedere il metodo della cosiddetta pesca “a strascico”). Infatti, oltre ad essere sempre e comunque censurabile, la diffusione di conversazioni e chat penalmente irrilevanti, secondo la logica ormai consolidata della gogna mediatica, in questo caso non era neppure necessaria per convincerci della necessità (ormai non più rimandabile) di riformare il Csm e in generale la magistratura. Non c’era bisogno del “caso Palamara”, divenuto oggi di fatto capro espiatorio su cui scaricare tutti i mali di un’intera categoria, per sapere che la magistratura è caratterizzato dallo scontro tra bande, da una degenerazione correntizia che incide in maniera inevitabile anche sul Csm e quindi sulla regolazione di tutti i passaggi decisivi delle carriere dei magistrati, dai trasferimenti alle promozioni, passando per la valutazione e le questioni di natura disciplinare. La logica prevalente è quella clientelare della spartizione tra gruppi, del do ut des al ribasso; il merito e la professionalità vengono dopo, prevale l’appartenenza a un gruppo o a un altro, a seconda dell’interesse del momento. Per questo la retorica delle “mele marce”, secondo la quale l’ANM sarebbe in grado, da sola, di autoriformare la magistratura “epurando gli impuri” e riorganizzandosi in maniera autonoma, senza il bisogno di nessun altro intervento, è fuorviante ed è soltanto un utile paraocchi per chi vuol fingere di non vedere la realtà. La soluzione, tuttavia, non è lo scioglimento dell’Associazione Nazionale Magistrati o del Csm, come proposto da alcuni, bensì un programma di riforma profondo e articolato. 

Riforma legislativa e costituzionale, rivoluzione culturale

Questo programma deve essere composto da due diversi percorsi, entrambi imprescindibili e da leggere non in contrasto tra loro ma anzi in un’ottica di integrazione e coesistenza. Il primo è un percorso di riforma legislativa, mentre il secondo, più complesso e difficile da raggiungere, un percorso di rivoluzione culturale.

Due ipotesi di riforma legislativa:

Partendo dal percorso di riforma riforma legislativa, possiamo dire che al momento questo s’ articola, nel dibattito pubblico, prevalentemente in due ipotesi tra loro differenti (tralasciando la proposta di Bonafede, cioè l’abolizione di collegi unici nazionali in un sistema elettorale a doppio turno con ballottaggio in collegio uninominale, che non cambierebbe nulla, anzi forse accentuerebbe le derive correntizie al ballottaggio). Si tratta, da una parte, dell’ipotesi di separazione delle carriere dei magistrati con conseguente creazione di due diversi Csm e, dall’altra, di un intervento sul meccanismo elettorale del Consiglio, che lo trasformerebbe in un sistema misto tra sorteggio ed elezione. 

Separare le carriere dei magistrati, creare due CSM separati

La prima opzione in questione è la proposta dall’Unione Camere Penali Italiane, presentata già nel 2017 con una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare sottoscritta da più di 70.000 cittadini (che verrà discussa alla Camera questo 29 Giugno). Si tratta di una riforma ampia e organica, che prevede come presupposto necessario la separazione delle carriere dei magistrati, cui seguirebbe la divisione del Csm in due distinti organi, uno per la magistratura requirente e uno per quella giudicante. Tale proposta, inoltre, incide anche sulla composizione dei membri dei due Csm: metà membri togati e metà membri laici, con un aumento dei membri laici rispetto alla composizione attuale. Non più un terzo di laici e due terzi di togati, ma due gruppi equamente divisi tra laici e togati.  Il tutto, mantenendo come membri di diritto quelli già previsti, opportunamente suddivisi però nei due diversi organi. Il Presidente della Repubblica presiederebbe entrambi, il PG della Cassazione sarebbe presente di diritto nell’organo requirente e il Primo Presidente di Cassazione sarebbe membro dell’organo di autogoverno giudcante. Nella proposta di legge in questione, i criteri di elezione sarebbero rimandati, come adesso, alla legge ordinaria,  pertanto a criteri stabiliti dal Parlamento. Le ragioni di questa riforma si possono sintetizzare nella seguente frase, più volte ripetuta dal Presidente dell’UCPI Giandomenico Caiazza: “un PM indipendente dalla politica, un Giudice indipendente dal PM”. Riprendendo i documenti ufficiali della proposta: la creazione di due CSM è necessaria “per restituire alla Magistratura Giudicante la sola, ma decisiva autonomia ed indipendenza che le è oggi negata”.  A guardar bene, in effetti, la magistratura requirente è da anni al comando di tutte le posizioni di vertice dell’ANM, occupando così di conseguenza la maggior parte delle posizioni nel CSM. Tutto questo, anche se rappresenta numericamente soltanto il 20% della magistratura italiana. Un’evidente anomalia, che comporta che tutta la  magistratura sia a traino dei soli rappresentanti della pubblica accusa. L’ANM è storicamente contraria a questa riforma, avendola da sempre ritenuta pericolosa per l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, anche se non è chiaro per quale motivo, dato che la proposta di legge in questione non prevede in nessun punto il controllo da parte dell’esecutivo nei confronti dei togati. Sembra, dunque, più che altro una levata di scudi nei confronti di una legge mai apprezzata perché inciderebbe profondamente sull’assetto corporativo togato, considerato intoccabile da molti, troppi suoi componenti. Su questo tema, sono ancora di grande attualità le parole di Giovanni Falcone, che si espresse favorevolmente alla separazione delle carriere: “comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e quindi le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi […]. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza ed autonomia della magistratura”. Per quel che riguarda “il pm indipendente dalla politica”, si fa riferimento (anche) ai magistrati all’ interno del Ministero della Giustizia, sempre intorno ai 100 e quasi tutti pubblici ministeri; tema nel quale, inevitabilmente, si creano commistioni improprie tra politica e magistratura, proprio per la nomina dei magistrati in questione. L’UCPI ha chiesto, in tal senso, di “abrogare norme e vietare prassi che consentono il distacco di Magistrati presso i Ministeri, ed in primo luogo presso il Ministero di Giustizia, una scandalosa anomalia che non ha eguali nel mondo, e che letteralmente sovverte il principio cardinale di ogni democrazia politica, vale a dire il principio della separazione dei poteri”. Dell’argomento si è occupato in un recente articolo sul Riformista il Prof. Giuseppe Di Federico, tra i maggiori esperti di ordinamento giudiziario in Italia. “Nel considerare questo fenomeno occorre innanzitutto ricordare che esso è collegato alla natura burocratica dell’assetto delle magistrature dell’Europa continentale, per cui i dipendenti dello Stato centrale possono essere destinati a svolgere, nell’ambito dell’apparato statale, funzioni diverse da quelle per cui sono stati reclutati. Pertanto non solo in Italia ma anche in altri stati europei numerosi sono i magistrati che svolgono la loro attività nei vari ministeri della Giustizia (in Francia, Germania, Austria. Spagna e così via)”, ha scritto il professore, che ha poi aggiunto: “Detto questo, rimane da spiegare perché solo in Italia questo fenomeno viene denunziato ripetutamente come una violazione del principio della divisione dei poteri e negli altri Paesi no. Ciò dipende dal differente status del magistrato italiano che opera presso il nostro ministero della Giustizia rispetto a quello dei magistrati di altri paesi. Negli altri stati i ministri della Giustizia hanno, in varia misura, poteri decisori sullo status dei magistrati quantomeno per il periodo in cui sono alle loro dirette dipendenze (disciplina, valutazioni di professionalità, futura destinazione alle sedi giudiziarie alla fine del loro servizio presso il ministero). In Italia, invece, il ministro della Giustizia non ha alcuna influenza nel governare lo status dei magistrati che da lui formalmente dipendono”. Alla luce di quanto detto dal Professore, la proposta dell’UCPI, ancor più se letta nel contesto generale di cui sopra, appare ragionevole. Sarebbe infine opportuno intervenire anche sulle cosiddette “porte girevoli”, impedendo a chi ha ricoperto la funzione di magistrato di riassumerla dopo essersi candidato o essere stato eletto. (Un tema, questo, che, come si intende, è strettamente collegato a quanto finora analizzato e che ci limitiamo a citare per questioni di spazio, ma che è di enorme importanza e pertinenza rispetto alla questione di riforma delle toghe. Lo approfondiremo in una prossima occasione. Nel frattempo vi consigliamo questo articolo di Sabino Cassese a riguardo)

Abolire il voto di lista, introdurre il sorteggio per i togati al CSM

La seconda ipotesi, invece, si concentra in maniera esclusiva sulle elezioni del CSM: alcuni sostengono la necessità di prevedere un sistema misto tra sorteggio ed elezione. Uno dei primi a lanciare l’opzione sorteggio è stato Luciano Violante la scorsa estate, subito dopo lo scoppio della vicenda Palamara. Ecco la sua proposta: “Si potrebbe stabilire con una legge costituzionale che dopo tre anni (nella mia idea la durata del Csm dovrebbe essere portata dagli attuali quattro a sei anni per dare la possibilità di stabilizzare le prassi e ridurre le pressioni degli elettorati) si sorteggia la metà dei componenti togati e la metà dei componenti laici. I sorteggiati decadono e si ricorre a nuove elezioni. Non si rinnova l’organo, quindi, ma si rinnovano volta per volta i singoli componenti, come per la Corte costituzionale. La pressione delle correnti sarebbe ridotta, perché con il tempo, dovendo essere eletto un solo componente, si azzererebbe il peso delle liste elettorali”. L’ANM, non appena è emersa questa posizione, si è subito espressa negativamente, sostenendone l’incostituzionalità. In questi giorni è stata ripresa da Piero Tony, il quale ha sostenuto l’opportunità di un sistema misto tra sorteggio ed elezione. Un’ipotesi suggestiva, che, con la previsione del meccanismo casualistico del sorteggio, sicuramente in parte romperebbe il legame tra elezione e correnti. Un approccio, per questo motivo, sicuramente più disilluso per quel che riguarda la possibilità delle correnti di recuperare la loro funzione originaria, che tuttavia non incide in maniera diretta sul rapporto tra pm e giudici e tra pm e politica, temi di portata non poco rilevante se letti in un’ottica di riforma generale, al di là della questione CSM. L’ipotesi di separare le carriere e creare due CSM e quella del sorteggio, tra l’altro, potrebbero anche convivere, coesistere (e lo stesso Piero Tony, nell’articolo in cui ha proposto il sorteggio per il CSM segnalava la necessità di separare le carriere). Al di là delle visioni dei proponenti, l’abolizione del voto di lista al Csm non impedisce la separazione delle carriere e la conseguente previsione di due Csm, i cui membri togati sarebbero eletti tramite sorteggio e non tramite voto della magistratura ordinaria.

Rivoluzione culturale: quali proposte?

Analizzate le due diverse ipotesi appartenenti al percorso di riforma legislativa, si può procedere al secondo percorso, quello culturale. Si tratta di un argomento spinoso e molto complesso, che va letto attraverso la lente della deontologia professionale, del ruolo pubblico (extrafunzionale) del magistrato nonché del concorso pubblico e del livello di Scuola di magistratura. A parlarne in questi giorni è stato il Giovanni Fiandaca (in un articolo sul Foglio) che, prima di tutto, ha descritto la degenerazione delle correnti, diventate strutture e macchine di potere predisposte allo scambio clientelare di favori e alla spartizione dei posti, perdendo così da tempo la capacità di riflessione ed elaborazione culturale. Dopo questa premessa, il professore ha sottolineato la necessità di recuperare in magistratura una sobrietà istituzionale ormai perduta, in particolare da parte dei pubblici ministeri. Citando Gaetano Silvestri: “Uno dei mali maggiori delle istituzioni italiane, non eliminabile con revisioni costituzionali di qualsiasi tipo, è la tendenza irrefrenabile all’esternazione estemporanea di molti importanti magistrati […]. Il fenomeno ormai ha raggiunto dimensioni tali da non poter più essere classificato tra i fatti di costume, o affrontato in termini di stile e senso dell’opportunità. Si tratta di una vera e propria emergenza costituzionale”. In sostanza, ha criticato fermamente la giustizia da talk show. In questo evidentemente serve un cambio di passo, una rivoluzione culturale, da ottenere attraverso l’apertura di un “dibattito pubblico allargato sul modello del magistrato  e sul codice deontologico” che dovrebbero essere “più adeguati alle sfide del mondo contemporaneo”. Ha poi aggiunto che sarebbe necessario “riaprire il dibattito anche sui gravi limiti del concorso pubblico (così come finora concepito) quale canale di accesso alla funzione giudiziaria, sui persistenti deficit della formazione culturale e tecnica destinata ai futuri magistrati e sulle provenienze, le competenze e le insufficienze dei soggetti responsabili delle attività formative nell’ambito dell’attuale Scuola di magistratura”.

Conclusione: ripristinare la separazione dei poteri, ridare forza allo Stato di Diritto

In conclusione, è evidente, come si diceva all’inizio, che la questione non possa che essere affrontata in maniera globale, non appiattendosi soltanto sulla vicenda Palamara e sul CSM, poiché il vero tema è riformare, in generale, tutto l’assetto della magistratura, nonché recuperare una “cultura del limite” che al momento non caratterizza la categoria. Le correnti potranno tornare ad avere un ruolo di elaborazione di proposte e di pensiero soltanto se la loro deriva sarà arginata, sia con adeguate riforme legislative strutturali sia con un rinnovato approccio deontologico e di formazione, che consenta una reale condivisione della cultura dello Stato di Diritto. E’ giunto il momento di ridare forza alla separazione dei poteri, principio inviolabile su cui ogni sana democrazia liberale si deve fondare. Si è atteso fin troppo, ora non c’è più tempo da perdere.