Sabato 3 ottobre, a Catania, si celebrerà la prima udienza di Matteo Salvini davanti al Gup per la vicenda della nave Gregoretti. I fatti presentano indubbie affinità con la quelli della vicenda Open Arms, la cui autorizzazione a procedere è stata recentemente avvallata in Senato. Questa occasione, pertanto, ci consente di riproporre il dibattito che aveva accompagnato l’autorizzazione a procedere per il caso Open Arms nel luglio scorso. Ciò che si vuole analizzare in questa sede è se, ai sensi di legge, bisognava o meno autorizzare il processo, nella convinzione che non bisogna valutare se si trattasse di una scelta politica, né se fosse la politica adottata dall’intero governo, né tantomeno se vi fosse un fumus persecutionis. Tutto si riduce a se Salvini, nell’ambito del caso Open Arms, così come nell’ambito della vicenda Gregoretti, abbia perseguito o meno un preminente interesse pubblico.
Sabato 3 ottobre, a Catania, si celebrerà la prima udienza di Matteo Salvini davanti al Gup per la vicenda della nave Gregoretti. Il senatore e leader della Lega è imputato per sequestro di persona aggravato, accusa che, se confermata, potrebbe portare ad una condanna fino a 15 anni di reclusione. I fatti sono ormai noti a tutti. Il Tribunale dei Ministri di Catania, nonostante la richiesta di archiviazione del PM, aveva richiesto l’autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex Ministro, contestandogli l’avvenuta privazione della libertà personale dei 131 migranti a bordo della nave Gregoretti dal 27 al 31 luglio 2019. Fatti che presentano indubbie affinità con la quelli della vicenda Open Arms, la cui autorizzazione a procedere è stata recentemente avvallata in Senato. Anche in quest’ultimo caso, infatti, Salvini è accusato di sequestro di persona aggravato e rifiuto di atti d’ufficio, per avere omesso di indicare un porto sicuro alla nave Open Arms e aver impedito lo sbarco di 164 migranti bloccati al largo di Lampedusa dal 14 al 20 agosto. Situazione che, tra l’altro, si sbloccò solo grazie all’intervenuto sequestro della nave da parte del Procuratore del Tribunale di Agrigento. Alle soglie dell’udienza, ancora si discute se sia giusto o meno, ai sensi di legge, che il leader della Lega sia sottoposto a processo per quanto fatto nell’ambito della sua attività di Ministro dell’Interno. A tal fine, questa occasione ci consente di riproporre il dibattito che aveva accompagnato l’autorizzazione a procedere per il caso Open Arms nel luglio scorso. Purtroppo, infatti, la discussione in Giunta e in Aula per il caso Gregoretti era stata del tutto falsata dalla nota megalomania del senatore, che aveva chiesto di essere processato così da processare anche il popolo italiano (sic!). Date le similarità tra le due vicende, gli argomenti emersi quest’estate dentro e fuori dal Parlamento possono essere estesi anche al caso Gregoretti, consentendoci così di valutare se, in questa come in quella occasione, l’autorizzazione a procedere dovesse essere effettivamente concessa. Prima di analizzare più nel dettaglio i vari orientamenti emersi nel dibattito, riteniamo utile riproporre, in un quadro di sintesi, la normativa in materia di reati ministeriali, ossia quanto risulta dall’art. 96 della Costituzione e dalla legge costituzionale n. 1 del 1989. L’art. 96 Cost. è stato modificato con la riforma costituzionale del 1989, che ha particolarmente innovato la procedura prevista per questo tipo di reati. In origine, i padri costituenti avevano previsto che il Presidente del Consiglio e i ministri fossero sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, al giudizio della Corte Costituzionale, previa messa in stato di accusa ad opera del Parlamento in seduta comune. Ne risultava una procedura fortemente politicizzata, simile a quella prevista per il Capo di Stato. La riforma del 1989 ha previsto, innanzitutto, la competenza del giudice ordinario, che, nel caso in cui ritenga di non dover disporre l’archiviazione, deve presentare la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti del ministro indagato alla camera di appartenenza. La valutazione che quest’ultima è chiamata a svolgere, però, come è stato più volte affermato dalla Corte Costituzionale e come è stato giustamente sottolineato anche nella Relazione della Giunta, differisce da quella richiesta ai sensi dell’art. 68, comma 2, Cost., in materia di immunità parlamentare. In quest’ultimo caso, infatti, la ratio dell’istituto è quella di “porre al riparo il parlamentare da illegittime interferenze giudiziarie sull’esercizio del suo mandato rappresentativo; a proteggerlo, cioè, dal rischio che strumenti investigativi di particolare invasività … possano essere impiegati con scopi persecutori…”. Di conseguenza, il Parlamento dovrà valutare l’esistenza o meno del c.d. fumus persecutionis, ossia dell’intenzione di colpire strumentalmente un certo parlamentare con un’azione giudiziaria e, in caso positivo, negare l’autorizzazione. Nel caso di reati ministeriali, invece, la camera interpellata dovrà valutare se, ai sensi dell’art. 9 della legge cost. 1/1989, il ministro inquisito “abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo” e negare l’autorizzazione in caso di riscontro positivo di uno di tali requisiti. Ciò che si chiede ai membri dell’Assemblea è, pertanto, un giudizio, ovviamente di natura politica, sulla sussistenza di tali esimenti: dovranno valutare, in particolare, se il ministro ha perseguito un interesse pubblico superiore rispetto al bene che è stato leso dalla sua azione. Come ben spiegato da Giacomo Galazzo, Cultore della materia in Diritto costituzionale a Pavia, non si sottrae il ministro alla giustizia, ma si accerta che egli ha agito per un interesse ritenuto prevalente. Come vedremo, mentre vi sono state tesi (più o meno condivisibili) che hanno tenuto conto di tale normativa e hanno pertanto cercato di dare una risposta ai sensi di legge, si è assistito generalmente, nell’ambito dell’arena politica, a prese di posizioni totalmente strumentali e prive di qualsiasi fondamento normativo, in pieno contrasto, dunque, con quanto richiesto dalla legge cost. 1/1989.
In primis, è bene ricordare che, per il caso Open Arms, la Giunta si è espressa in modo negativo circa la richiesta di autorizzazione, motivando tale decisione, appunto, con la conclusione che, nel caso di specie, Salvini aveva perseguito un preminente interesse pubblico inerente all’azione di Governo. Nel dettaglio, tale interesse consisteva “nel tentativo di dare una regolamentazione più rigorosa e corretta alla gestione dei flussi migratori, al duplice scopo di disincentivare il traffico degli immigrati e i conseguenti naufragi, oltre che delimitare il numero di accessi irregolari clandestini sul territorio nazionale, con riflessi sulla sicurezza pubblica anche sotto il profilo della minaccia terroristica.” Ai nostri fini, sono interessanti due aspetti della Relazione. In primo luogo, il fatto che la valutazione sulla preminenza dell’interesse, punto focale dell’intera procedura, sia liquidata in poche righe finali. La riporto integralmente: “Sicuramente la configurazione di preminenza può essere ravvisata in caso di rischio terroristico (ritenuto insussistente nel caso concreto, come rilevato nella stessa relazione, ndr), attesi i diritti che tale minaccia è suscettibile di compromettere, come pure può essere ravvisata sotto altri profili di sicurezza generale e di gestione dei flussi migratori”. Data l’importanza di un tale giudizio, sarebbe sicuramente stata auspicabile una motivazione più pregnante. In secondo luogo, lascia -a mio parere- sconcertati il fatto che, secondo quanto riportato nella relazione, sarebbe sufficiente il voler perseguire, in via astratta, un preminente interesse pubblico e non l’effettiva sussistenza dello stesso, con la conseguenza che a nulla rileverebbe la possibilità che Salvini abbia “erroneamente sopravvalutato un pericolo terroristico”, poiché “ciò non comporta il venir meno del perseguimento di un interesse pubblico”. E ancora, sempre secondo la relazione, nella valutazione non si dovrebbe tenere conto dell’efficacia delle scelte del ministro a perseguire tale interesse e dell’idoneità delle stesse a raggiungere gli obiettivi perseguiti. Se portato alle estreme conseguenze, si tratta di un ragionamento che può sprofondare in esiti inaccettabili. Sempre citando Galazzo, può un ministro ordinare un omicidio per la “salvezza della Repubblica”? Sottolineano tale incongruenza gli interventi in Aula dei senatori del Gruppo Misto Emma Bonino e Gregorio De Falco. L’ex radicale, una delle poche voci che ancora difende lo Stato di diritto in Parlamento, pone l’accento sul fatto che “la difesa dell’interesse nazionale” – con cui Salvini giustifica la propria condotta – non coincide necessariamente con l’interesse pubblico, “che infatti non è stato qualificato e di cui non è stata motivata la preminenza rispetto ad altri interessi e diritti in gioco sacrificati in quella circostanza”. Mancata qualificazione e mancata motivazione che – prosegue – sono già “più che sufficient[i] per giustificare il voto contrario al diniego all’autorizzazione perché, come dice anche la sentenza della Corte, affinché possa essere negata l’autorizzazione a procedere si deve motivare – non affermare – che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse costituzionalmente rilevante. Mi si dice che c’era la possibilità che ci fossero terroristi a bordo, ma il rischio dev’essere provato, immediato, contestuale e non previsto. Non meno critico è l’On. De Falco, che accusa Gasparri e la sua relazione di riportare il Paese all’epoca della Magna Charta Libertatum del 1215. “Non è possibile – tuona – in uno Stato di diritto, affermare che se il Ministro ha intenzione di perseguire, allora si tratta sicuramente di funzionalizzazione dell’interesse pubblico. Il Parlamento non può esentare un cittadino dalla responsabilità penale, se l’iter argomentativo è contraddittorio, insufficiente, debole e non ancorato a dati obbiettivi”. A rigore di logica, è dal diretto interessato che ci si aspetterebbe una motivazione effettiva del preminente interesse pubblico da egli perseguito e, di conseguenza, della opportunità di negare l’autorizzazione a procedere. Purtroppo, né la memoria difensiva né l’intervento del senatore Salvini ci aiutano a chiarificare questo punto. Nella prima, presentata anteriormente alla discussione in Aula, l’ex ministro, pur precisando ampiamente di non aver commesso alcun reato (questione però che spetta ai giudici risolvere, e non al Parlamento), afferma come il preminente interesse pubblico perseguito fosse quello del corretto controllo e gestione dei flussi migratori nonché della piena tutela dell’ordine pubblico. Anche qui, nessuna spiegazione sul perché tale interesse sia da ritenersi prevalente rispetto ai beni giuridici – libertà personale delle persone a bordo in primis – lesi dalle sue azioni. Molto divertente, invece, il suo intervento in Aula. Si discuteva sul se avesse agito per un preminente interesse pubblico. In dieci minuti non ha mai citato il termine “interesse pubblico”. Ha iniziato dicendo “entriamo nel merito”. Non è mai stato più lontano da questo. Ha unito auliche citazioni, da Einaudi a Ugo Tognazzi, ad accuse un po’ vaghe di processo politico, per finire con il suo mantra degli ultimi tempi: l’art. 52 Cost. e la difesa della Patria come sacro dovere del cittadino. Spero che si prepari meglio per l’udienza.
Discussioni e prese di posizione non sono mancate neppure sulla carta stampata. È interessante analizzare le due opinioni diametralmente opposte di Piero Sansonetti e Claudio Cerasa, direttori, rispettivamente, de Il Riformista e de Il Foglio. Il primo coglie il punto della questione quando afferma che si è trattato di un voto assolutamente politico, senza riguardo al merito della vicenda. Le critiche di Sansonetti sono dirette, però, a Matteo Renzi che, con il suo voto a favore, avrebbe dato “il via libera all’incursione dei magistrati in politica”, proprio dopo aver fatto un discorso denunciando lo strapotere della magistratura. Con tutto il rispetto verso la battaglia che Il Riformista da sempre conduce a favore dell’indipendenza della politica dalla magistratura, non ritengo che questo sia il problema nel caso di specie. Non si può considerare, come fa Sansonetti, ogni azione di un ministro una “scelta politica” di per sé volta a perseguire un interesse pubblico e, quindi, di per sé esente da ogni sindacato giudiziale. “Se non c’è nessun reato nella scelta – scrive –, perché è legittima scelta politica, è chiaro che c’è una persecuzione in atto”. L’assunto per cui le azioni dei ministri sono automaticamente qualificabili come poste in essere nell’interesse pubblico, solo per la loro provenienza, non può essere condiviso. Si tratta di un ragionamento che può portare a conseguenze inaccettabili. I ministri possono commettere un reato e, se la loro azione non persegue un preminente interesse pubblico, la legge vuole che questi siano processati. Non si tratta di persecuzione. Per questo stesso motivo, condivido maggiormente il pensiero di Cerasa, il quale scrive, nel suo editoriale del 31 luglio, che “chiamare a rispondere della legge un ministro che decide deliberatamente di ignorare la legge per questioni legate più alla propaganda personale che all’interesse nazionale …, non è disprezzo per il garantismo ma è semplicemente rispetto dello stato di diritto”. Ciò non toglie, ripeto, che, nel caso di specie si sia trattato di un voto mosso da motivazioni totalmente di stampo politico. In questa sede, però, non si sta valutando se il Parlamento ha votato bene o ha votato male, perché altrimenti sarebbe assai arduo trovare più di un paio di senatori che si sono espressi prescindendo dalla ideologia politica e basandosi sulla disciplina legislativa. Ciò che si sta analizzando è se, ai sensi di legge, bisognava o meno autorizzare il processo. Non bisogna valutare se si trattasse di una scelta politica, non bisogna valutare se fosse la politica adottata dall’intero governo, non bisogna valutare se vi fosse un fumus persecutionis. Tutto si riduce a se Salvini, nell’ambito del caso Open Arms, così come nell’ambito della vicenda Gregoretti, abbia perseguito o meno un preminente interesse pubblico. Ad oggi, non ho ancora trovato una motivazione convincente di tale preminenza. Per quanto riguarda la fondatezza delle accuse, invece, ci rimettiamo a quelle che saranno le decisioni dei giudici.
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