Risale a tre settimane fa la notizia relativa alla rideterminazione della pena nei confronti di Adam Kabobo, cittadino ghanese che, l’11 maggio 2013, armato di piccone per le strade di Milano, uccise tre persone ferendone altre due. Il provvedimento del GIP del Tribunale di Milano è stato accolto, da una parte della classe politica e dell’opinione pubblica al seguito, con grande sdegno. Come spesso accade, i titoli scandalistici la giocano da padroni e le ragioni giuridiche sottese alle decisioni, non di rado riportate in modo impreciso, passano in secondo piano, quasi come fossero un elemento accessorio. A darne prova è, in primo luogo, l’unanime riferimento alla vicenda in commento con l’espressione “riduzione di pena”, lasciando intendere una valutazione di minore gravità dei fatti ad opera del magistrato, quando in realtà si è trattato della rideterminazione (aritmetica) di una pena illegittima, senza alcuna valutazione di merito sui reati commessi dal Kabobo. Per meglio comprendere come si è giunti al ricalcolo della pena, è necessario ricostruire cronologicamente la vicenda. Invero, l’ordinanza del GIP Alessandra Di Fazio si inserisce in un percorso giudiziario, avviato su istanza del difensore del ghanese, volto al cumulo giuridico delle pene irrogate a suo carico per i fatti di quel giorno, che, sebbene susseguitisi nell’arco temporale di poche ore, sono stati giudicati dal Tribunale di Milano con due diversi processi. Su quell’istanza, presentata dal difensore del Kabobo nel novembre 2019, si è pronunciato inizialmente un altro GIP del Tribunale di Milano, determinando la pena finale in ventotto anni di reclusione dopo aver cumulato le pene irrogate con le due diverse sentenze: anni venti di reclusione per tre omicidi e tre rapine, ed anni otto di reclusione per due tentati omicidi (riconosciuti, in entrambe le sentenze, il vizio parziale di mente, la continuazione e la riduzione di pena per il giudizio abbreviato). L’ordinanza, depositata il 27 novembre 2019, è incorsa tuttavia in due profili di illegittimità.

Lungi dall’addentrarsi nella complessa esposizione della disciplina che regola il cumulo giuridico delle pene in fase di esecuzione – tra l’altro, recente oggetto di importanti divergenze interpretative anche in seno alla Suprema Corte di Cassazione [1] –, merita approfondimento la circostanza per cui l’originario cumulo delle pene (giuridico per l’appunto, e non materiale, che invece consiste in una semplice operazione aritmetica) ad anni ventotto di reclusione, fosse avvenuto in spregio alle norme del codice di procedura penale [2], determinando quindi l’illegittimità del calcolo operato dal giudice investito. In tali casi, infatti, il giudice dell’esecuzione è vincolato, nella determinazione della pena, alle valutazioni operate dalle sentenze di condanna, e il proprio ambito discrezionale è assai ristretto. Il provvedimento del novembre 2019 è stato quindi oggetto di ricorso in Cassazione da parte del Kabobo e la Corte si è espressa il 1 ottobre 2020, annullandolo e disponendo che l’operazione di cumulo fosse nuovamente effettuata dal Tribunale di Milano. Nella sentenza della Corte di legittimità si legge che “l’ordinanza impugnata ha, innanzitutto, violato la disposizione che vincola il giudice dell’esecuzione nella determinazione della pena base – avendola determinata in misura superiore a quella commisurata […] – e degli aumenti di pena per i reati così detti satellite” (ovverosia i reati ulteriori al più grave commesso) e, ancora, “ha commisurato gli aumenti di pena […] in termini tra loro diversi […] e senza alcuna motivazione” [3]. Quindi, due profili di illegittimità: il primo relativo all’operazione di calcolo; il secondo motivazionale. Come è di regola, nell’annullare la precedente decisione disponendo un nuovo esame della questione, la Corte di Cassazione ha fissato i parametri ai quali il giudice si sarebbe dovuto attenere.

Si è così giunti alla tanto discussa ordinanza, che ha legittimamente rideterminato la pena in ventiquattro anni di reclusione, tenuto conto anche della riconosciuta semi-infermità mentale del ghanese ad opera di entrambe le sentenze definitive e della sua scelta di procedere con giudizio abbreviato in entrambi i processi. Si consideri, inoltre, che l’accertato vizio di mente ha comportato l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in casa di cura, lasciata impregiudicata dall’operazione di cumulo delle pene e da scontarsi all’esito della pena detentiva. La recente ordinanza, subissata dalle veementi critiche da parte dell’opinione pubblica (sempre più aderente al giustizialismo e all’approssimazione giudiziaria colpevolista), è pertanto logica e doverosa conseguenza del vaglio di illegittimità operato dalla Corte di Cassazione già diversi mesi fa, e non lascia spazio ad addebiti così duri quanto infondati. Ciò, anche in ragione del fatto che la pena cui Kabobo risulta condannato è in corso di esecuzione, essendo lo stesso detenuto dal giorno dei fatti presso la Casa di reclusione di Opera, attualmente in regime di 41-bis (il cd. carcere duro). Al cospetto di sempre più frequenti episodi di compressione dei principi dello Stato di diritto, ad opera tanto del legislatore (si veda in proposito la preclusione al giudizio abbreviato per i reati puniti in astratto con la pena dell’ergastolo di recente introduzione) quanto, ancor più impetuosamente, degli organi di informazione, merita ricordare che la Costituzione all’art. 101 afferma che “La giustizia è amministrata in nome del popolo”, e non dal popolo stesso: la materia giudiziaria deve rimanere oggetto da trattare nelle aule di giustizia, a maggior ragione quando si tratta di valutazioni tecniche ed estremamente complesse, lasciando al pubblico esterno il diritto di conoscere, ma non certo di sostituirsi al giudice. 


[1] Cfr. Cass. pen. SS.UU., sent. 08/06/2017, n. 28659, Pres. Canzio, Rel. Lapalorcia, P.G. Spinaci.
[2] Artt. 81 c.p. e 671 c.p.p.
[3] Cass. pen. Sez. I, sent. 01/10/2020, n. 34256, Pres. Boni, Rel. Bianchi, P.G. Perelli.