“Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti. Poi se altri giudici scarcerano nelle fasi successive non ci posso fare niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. Così ha risposto Nicola Gratteri a Giovanni Bianconi, che legittimamente gli aveva domandato per quale ragione le indagini della sua Procura vengano spesso ridimensionate dal riesame o nei gradi di giudizio successivi. La domanda del noto giornalista del Corriere della Sera era, però, centrata e assolutamente pertinente, alla luce del grande numero di buchi nell’acqua collezionati negli anni dal Procuratore capo di Catanzaro. “Marine”, “Circolo formato”, “Metropolis”, “Rinascita Scott”: queste, giusto per ricordarlo, sono solo alcune delle inchieste di Gratteri che, nonostante il clangore mediatico e l’esorbitante quantità di arresti, hanno poi portato ad un numero esiguo di condanne e ad una valanga di assoluzioni. E’ fuori discussione che in Italia viga l’obbligatorietà dell’azione penale, e che le tesi dell’accusa sono soltanto delle ipotesi da mettere alla prova del contraddittorio. Ma al PM calabrese, forse, è sfuggita un po’ la mano. Ciò, anche perché ha l’abitudine di saltare da una conferenza stampa all’altra, presentando ai media il risultato delle indagini come una specie di assioma giudiziario, una verità inconfutabile e granitica, sufficiente di per sé stessa ad accertare la responsabilità penale dei soggetti coinvolti, senza la necessità di doverla sottoporre all’esame del contraddittorio e al vaglio del giusto processo. In poche parole, Gratteri ha espresso plasticamente la sua preoccupante concezione di giurisdizione. Gravissimapoi − e non a caso, già aspramente criticata − l’allusione riferita ai giudici che non confermano le sue tesi: “credo che la storia spiegherà anche queste situazioni”. Come scritto da Giandomenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, si tratta di un chiaro riferimento a possibili “emergenze investigative che spieghino quegli esiti in termini di collusioni mafiose nella giurisdizione”, da cui emerge una prospettiva per la quale il giudice che non conceda ciò che il PM richiede non interpreterebbe in maniera corretta la propria funzione. In sostanza, ad avviso di Gratteri, o un’inchiesta si traduce in una condanna oppure qualcosa non ha funzionato. Il processo, così, da luogo di accertamento delle responsabilità individuali e strumento di garanzia dell’imputato, viene degradato a un meccanismo presuntamente palingenetico, deputato in maniera esclusiva alla “lotta al crimine”, poiché votato all’applicazione del diritto in nome dell’ossessione punitiva, e non della Costituzione.

ll passaggio già citato della “storia che spiegherà anche queste situazioni” è un’affermazione facile da decifrare nel segno dell’ “assolutismo inquisitorio” che la informa. Tuttavia, ad una lettura più attenta ed approfondita, non può sfuggire l’importanza del frammento subito precedente: “Noi facciamo richieste, sono i giudici delle indagini preliminari, sempre diversi, che ordinano gli arresti”. Su questo, infatti, ha ragione: sono i GIP a convalidare, a dare il via all’applicazione della misura cautelare, apponendo la firma necessaria a che la richiesta del pubblico ministero divenga ordine. Sorvolando, per brevitas, su ulteriori criticità pertinenti a questo tema (tra le altre, la strumentalizzazione dell’obbligatorietà dell’azione penale; i capi d’accusa sempre più frequentemente “gonfiati” per accedere a misure di indagine che, altrimenti, non sarebbe possibile attivare; la gogna mediatica e le redazioni dei giornali trasformate in buchette per le lettere delle procure), c’è un argomento emerso indirettamente dalle dichiarazioni, che non deve passare inosservato: l’inutilità sostanziale del ruolo del GIP, che, troppo spesso, svolge una funzione meramente notarile, e la conseguente (e sconfortante) prevedibilità dell’esito del provvedimento − troppo spesso un copia e incolla della richiesta di misura cautelare dell’accusa e non, come dovrebbe essere, il frutto di un’analisi terza e imparziale. Così Gratteri, del tutto involontariamente e mosso da ben altre motivazioni, ha realizzato un grande spot nazionale per la separazione delle carriere. Chissà, dunque, che questa dichiarazione non possa avere l’effetto positivo di mostrare ai giudici più restii la necessità, sempre più pressante, di “restituire alla Magistratura giudicante la sola ma decisiva autonomia ed indipendenza che le è oggi negata: quella dalla Magistratura inquirente”. A proposito: il silenzio dell’Anm è inquietante e non fa ben sperare, sia per la salute della giurisdizione sia per l’autonomia e l’autorevolezza dei giudici, ancora una volta abbandonati da un’associazione nazionale nettamente a trazione degli uffici di procura e dei pubblici ministeri (che, infatti, da anni ne occupano le posizioni apicali e ne gestiscono l’attività). Anche il CSM, tra l’altro, non è intervenuto, ma al mutismo selettivo dell’organo di autogoverno della magistratura ci si è ormai da tempo abituati. Per fortuna, oltre alla forte presa di posizione di Magistratura Democratica, unica corrente intervenuta pubblicamente in difesa dei giudici e della loro autonomia, una critica istituzionale è giunta dall’inaugurazione dell’anno giudiziario. A mandare un messaggio a Gratteri, seppur tra le righe e con grande eleganza, ci ha pensato Giovanni Salvi, Procuratore Generale della Cassazione, che se da un lato ha sottolineato l’impegno dei pubblici ministeri nell’anno della pandemia, dall’altro ha ricordato che “non sempre al clamore delle indagini e degli arresti ha però corrisposto pienamente la conferma nelle fasi successive. Questa discrasia, quando significativa, dovrà essere oggetto di attenta analisi in sede di ricerca dell’uniformità nell’esercizio dell’azione penale e quindi anche nelle indagini preliminari”. Per quanto sacrosante siano queste parole è più che lecito immaginare che avranno l’utilità di un grido del deserto. Arriveranno anche a Catanzaro, certo, ma entreranno in un orecchio del Procuratore Capo per uscire velocemente dall’altro.