Le conclusioni del consulente del P.M. sarebbero a priori preferibili a quelle del consulente della difesa, proprio perché il primo è nominato dal pubblico ministero, che è (o almeno dovrebbe essere) “l’unica delle parti tenuta alla verità e ad un’indagine completa”. Il disegno di questa corsia preferenziale comprime il principio del contraddittorio nella formazione della prova, di cui all’art. 111 della Costituzione, in quanto si riconosce una priorità intrinseca agli elementi provenienti da una sola parte. Inoltre, viene tradito il principio costituzionale della parità delle parti. Sul fondo, sembra ancora stagliarsi il cascame del maldigerito passaggio al processo accusatorio.

Lo stato di salute del processo accusatorio, a trent’anni dall’entrata in vigore dell’attuale codice di procedura penale, non è dei migliori. Significativa è una recente pronuncia della Corte di Cassazione (la sentenza n. 16458 del 18 febbraio 2020 della Terza Sezione), che mette in discussione il principio della parità delle parti. Nel caso di specie, l’imputata aveva proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione lamentando che nella sentenza impugnata non fosse stata prestata alcuna attenzione alla consulenza di parte, cui era stato apoditticamente preferito l’elaborato del consulente tecnico del pubblico ministero. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile. Infatti, secondo i supremi giudici <<la sola generica conclusione del consulente della difesa non è certamente sufficiente a superare le avverse conclusioni di altra indagine, occorrendo invece che, alle argomentazioni specifiche del perito o del consulente tecnico del pubblico ministero […], vengano contrapposte specifiche controargomentazioni tecniche o scientifiche>>. L’iter argomentativo non si ferma qui, come pure sarebbe stato sufficiente, ma prosegue affermando che <<le conclusioni tratte dal consulente PM, pur costituendo anch’esse il prodotto di un’indagine di parte, devono ritenersi assistite da una sostanziale priorità rispetto a quelle tratte dal consulente tecnico della difesa>>. Tale veste privilegiata per le conclusioni del consulente del P.M. deriverebbe dal “ruolo precipuo rivestito dall’organo dell’accusa e dal suo diritto/dovere di ricercare anche le prove a favore dell’indagato” (ex art. 358 c.p.p.): <<Gli esiti degli accertamenti e delle valutazioni del consulente nominato ai sensi dell’art. 359 cod. proc. pen. rivestono perciò, proprio in ragione della funzione ricoperta dal Pubblico Ministero che, sia pur nell’ambito della dialettica processuale, non è portatore di interessi di parte, una valenza probatoria non comparabile a quella dei consulenti delle altre parti del giudizio>>. Non si tratta di una pronuncia isolata, richiamando la stessa un precedente del 2014 (Sentenza n. 42937 della Seconda Seziona) secondo cui <<se è vero che il consulente viene nominato ed opera sulla base di una scelta sostanzialmente insindacabile del pubblico ministero, in assenza di “contraddittorio” e soprattutto in assenza di “terzietà”, è tuttavia altrettanto vero che il pubblico ministero ha per proprio obiettivo quello della ricerca della verità – concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza e imparzialità – dovendosi necessariamente ritenere che il consulente dallo stesso nominato operi in sintonia con tali indicazioni>>. Ne deriva che <<l’operato dei consulenti tecnici del pubblico ministero (pubblici ufficiali), chiamati ad “affiancare” quest’ultimo come soggetti condizionati solo dalla ricerca della verità “in scienza e coscienza”, non corrisponde appieno a quello del consulente tecnico della parte privata>>.

Impossibile non cogliere l’aperto contrasto con i principi del giusto processo e le conseguenze potenzialmente nefaste di tale indirizzo. Innanzitutto, vi è una netta compressione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, di cui all’art. 111 della Costituzione, in quanto si riconosce una priorità intrinseca agli elementi provenienti da una sola parte. Inoltre, viene tradito il principio costituzionale della parità delle parti. Le conclusioni del consulente del P.M. sarebbero a priori preferibili a quelle del consulente della difesa, proprio perché il primo è nominato dal pubblico ministero. Da tale affermazione, si deve trarre la logica conseguenza della posizione di ontologica supremazia dell’organo dell’accusa rispetto alla difesa dell’imputato. Le motivazioni di tale squilibrio sarebbero da rinvenire nell’essere il P.M. un pubblico ufficiale che ricerca la verità, a differenza della difesa che è parte privata svincolata da un obbligo di verità. Tale diffidenza nei confronti dei consulenti della difesa si è manifestata anche verso i risultati delle indagini difensive, ed è frutto di un pregiudizio inquisitorio inestirpabile. Su tali premesse, è impossibile ventilare una presunta condizione di parità tra le parti. Inoltre, secondo la sentenza n. 42937 del 2014, il pubblico ministero ha per proprio obiettivo quello della ricerca della verità, che è “concretamente raggiungibile attraverso una indagine completa in fatto e corredata da indicazioni tecnico scientifiche espressive di competenza e imparzialità”. Ne conseguirebbe, portando alle estreme conseguenze tale indirizzo, l’inutilità dell’approfondimento dibattimentale e del contraddittorio nella formazione della prova, pletorici formalismi dinanzi ad una verità già accertabile dal P.M. in sede di indagine.

L’equivoco di fondo alla base di tale indirizzo verte sull’interpretazione dell’art. 358 c.p.p., in base al quale il pubblico ministero “svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Norma che ha sempre generato discussioni e dubbi, sia sulla sua concreta attuazione che sulla compatibilità con il nuovo processo accusatorio, ma che va ricondotta alla fase delle indagini preliminari e che va letta insieme all’art. 125 disp. att. c.p.p. secondo cui <<il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere accusa in giudizio>>. Questo deve essere l’obiettivo perseguito dal pubblico ministero ed a questo fine vanno ricondotti gli accertamenti su fatti e circostanze favorevoli all’indagato. Di certo, la norma non può essere strumentalizzata per sovvertire, in sede dibattimentale, la parità tra le parti ed il contraddittorio nella formazione della prova. Che la figura del pubblico ministero, all’interno del nostro sistema processuale, sia anomala è innegabile e ciò è il frutto inevitabile della natura ibrida del sistema stesso. La separazione delle carriere sarebbe un passo indispensabile ma non sufficiente per garantire la parità delle parti e delineare una nuova figura del pubblico ministero scevra dai retaggi del passato.  Il passaggio, con il codice di procedura del 1989, dal processo inquisitorio al sistema accusatorio non è stato mai pienamente accettato ed assimilato, nonostante la riforma dell’art. 111 della Costituzione. Le prospettive non sono rosee se si considerano i numerosi interventi legislativi ma anche giurisprudenziali (quali quello in commento) che tendono a minare ulteriormente i principi del giusto processo. Vi è un ultimo aspetto problematico che emerge dalla lettura di questa decisione: la concezione autoritaria del rapporto tra il cittadino ed il potere pubblico. Nello squilibrio tra la posizione del pubblico ministero e quella della difesa dell’imputato, si replica la condizione di subordinazione del cittadino nei confronti dell’autorità statale. Un nuovo diritto penale liberale dovrebbe partire proprio dalla necessità di tutelare i diritti dell’individuo, anche nel processo penale.