La Riforma Cartabia ha introdotto all’interno dell’art. 581 c.p.p. il comma 1-quater, che impone al difensore dell’imputato che sia stato dichiarato assente nel corso del giudizio di primo grado di munirsi, a pena d’inammissibilità, di uno «specifico mandato ad impugnare» al fine di presentare appello. La norma si propone di dare un volto all’imputato c.d. assente, ovverosia quell’individuo che, per il legislatore e secondo quanto emerge da recenti pronunce della Corte di Cassazione, parrebbe essere un soggetto disinteressato alla propria sorte e, dunque, da richiamare all’attenzione. Come si vedrà, molto spesso si tratta, in realtà, di persone non sempre consapevoli di cosa un procedimento penale comporti, o semplicemente di soggetti con i quali il legale incontra non poche difficoltà a mantenere una comunicazione stabile e duratura nel tempo, per questioni che vanno al di là del presunto disinteresse: parliamo dei senza fissa dimora, degli stranieri (irregolari e non), ma anche di tutti coloro che, banalmente, rimangono estranei alla complessità del procedimento penale italiano a causa della propria provenienza geografica e culturale. Tuttavia, sono per questo motivo da trattare alla stregua di “disinteressati”, arrivando perfino a sacrificare, per ciò solo, il loro diritto ad una piena difesa?


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A un anno dall’entrata in vigore del D.L.vo n. 150/2022, ossia l’arcinota “Riforma Cartabia” (che ha rappresentato un intervento di ampio spettro da parte del legislatore nell’ambito della giustizia penale), è già tempo di (amare) riflessioni. In particolare, tra le tante, non ci si può non accorgere che, in un’ottica di deflazione del contenzioso – primario e dichiarato obiettivo del legislatore, anche e soprattutto sulla base delle richieste europee legate a stretto giro al PNRR che ha finanziato la Riforma –, la novella ha posto in bilanciamento il diritto di difesa dell’imputato con la necessità di diminuire il carico degli uffici giudiziari. Ancora più nel dettaglio, e per quel che interessa in questa sede, sono di notevole importanza le modifiche apportate in relazione ad un momento delicato del percorso processuale: l’impugnazione della sentenza di primo grado da parte dell’imputato dichiarato assente, ovverosia quell’imputato che, nonostante fosse a conoscenza del procedimento a suo carico (diversamente applicandosi la disciplina di cui all’art. 420-quater c.p.p.), per mille e più ragioni alla fine ha deciso di non presenziare o partecipare attivamente al giudizio. La Riforma ha quindi provveduto ad aggiungere un nuovo comma (l’1-quater) all’articolo 581 del codice di procedura penale, secondo il quale: “Nel caso di imputato rispetto al quale si è proceduto in assenza, con l’atto d’impugnazione del difensore è depositato, a pena d’inammissibilità, specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza […]”. Prevedendo la necessità di uno «specifico mandato ad impugnare», il legislatore è parso dunque richiamare all’attenzione l’imputato assente, di fatto ponendolo davanti a un bivio: riattivarsi o fermarsi, tertium non datur. La ratio (recentemente ribadita anche dalla Cassazione, Sez. V, n. 42414/2023) è la seguente: nell’ottica del bilanciamento di cui si faceva menzione sopra, sprecare ulteriori risorse ed energie per imputati che si disinteressano delle loro sorti e, di fatto, demandano tout court al proprio difensore il compito di dare quegli impulsi processuali che loro non hanno mai dimostrato (in via personale) di voler dare, risulta illogico, spropositato; pertanto, il loro diritto ad un pieno processo è sacrificabile.

Eppure la questione – e questo, forse il legislatore no, ma gli operatori del diritto lo sanno – è un po’ più complessa di così. Si tratta di soggetti (gli imputati assenti) che, prima di tutto, non hanno alcun obbligo di presenziare né di seguire un procedimento che li riguarda; ciò, tuttavia, non li rende certamente meno meritevoli di altri di ricevere, grazie all’impugnazione, un esito giudiziario giusto, conforme alla legge e al fatto storico oggetto di esame. Pertanto, se anche la scelta dell’imputato fosse animata da disinteresse, non può e non dovrebbe in ogni caso essere ammessa, in un ordinamento liberal-democratico quale è il nostro, una condizione che di fatto “sanziona” il soggetto, impattando direttamente sul diritto di difesa dello stesso e privandolo di un nuovo grado di giudizio che potrebbe incidere in modo anche decisivo sulla condanna patita. La questione si pone anche in questi termini: legare le mani al difensore del soggetto divenuto irreperibile certo diminuirà il contenzioso e il carico di lavoro degli uffici giudiziari, ma parallelamente non potrà che aumentare il numero delle sentenze divenute irrevocabili all’esito del solo giudizio di primo grado. Primo grado che – non ci si nasconda dal riconoscerlo – non sempre rappresenta l’accertamento pieno e definitivo dei fatti, né per forza il più corretto inquadramento giuridico degli stessi. Nessuno si offenda: esistono proprio per questo tre diversi gradi di giudizio. Invero, tali affermazioni sono riportate anche da numerosi studi e indici statistici, i quali segnalano tassi di riforma in appello che si contano a decine di migliaia ogni anno e che nel 2019 raggiungevano persino il 35% del totale (a fronte di un 36% di conferme e un 29% residuante per altre tipologie di definizioni) [1]. Merita allora, a questo punto, provare a dare un volto a quegli individui di cui si parlava poc’anzi, ossia i sopravvenuti irreperibili, coloro che si sono (apparentemente) disinteressati al procedimento penale di cui erano destinatari. Si tratta, in via tendenziale e non assoluta, di una categoria eterogenea, eppure facilmente individuabile: soggetti senza fissa dimora, stranieri irregolari, individui a bassa scolarizzazione e persone poco o mal consapevoli circa la serietà e l’importanza di un procedimento penale. Potrebbe sembrare assurdo, ma è tutt’altro che raro, per un difensore, riscontrare (non pochi) problemi nel costante e continuo aggiornamento del proprio assistito circa l’evolversi del processo: si pensi solo alle innumerevoli difficoltà nel reperire un senza fissa dimora; alle non sempre celeri o certe risposte da Consolati e Ambasciate, quand’anche le stesse famiglie degli imputati (quando presenti) non sempre si dimostrano coese, unite o collaborative. E allora, in questo scenario reale, s’impone una domanda: si può parlare sempre di “disinteresse”? È disinteressato il senza fissa dimora che si sposta di città in città alla ricerca di un luogo in cui vivere e che, per tale ragione, finisce per perdere (quasi) ogni possibilità di contatto con il proprio difensore? È disinteressato lo straniero che, coinvolto in un procedimento penale a poca distanza dall’arrivo sul territorio dello Stato, magari poi prosegue la propria direzione verso altri Stati dell’Unione europea, oggetto di originaria destinazione? E vi è certezza che quell’individuo, conoscendo tutte le possibili conseguenze di una condanna, non avrebbe interesse a proporre appello?

Al confronto con la realtà, non pare, dunque, potersi parlare sempre e comunque di disinteresse. Ma allora, posta in questi termini la questione, sulla base di cosa esattamente si sta sacrificando il diritto di difesa di questi individui? Tutte le risposte alla domanda, se non serbano una soluzione, quantomeno conducono ad un auspicio: un pronto, puntuale e più garantista approccio all’argomento, prevedendo forme di tutela attivabili su iniziativa dell’interessato anche in momenti successivi alla divenuta irrevocabilità della sentenza. In tal senso, il rimedio della rescissione del giudicato previsto dall’art. 629 bis c.p.p. non sembra poter essere del tutto fruibile nei casi in esame. Un ordinamento che anteponga le proprie strutturali carenze al diritto del singolo ad un pieno e giusto processo è un ordinamento che sceglie la logica economica in luogo di quella garantista, ma che, soprattutto, nel creare imputati di serie A e di serie B, contravviene alla sua anima ispiratrice, volta sempre e comunque a presidiare il diritto di difesa del singolo, chiunque egli o ella sia, qualunque siano la sua estrazione sociale, il suo grado d’istruzione e la sua provenienza. Il procedimento penale, infatti, per sua vocazione e pubblica funzione, non è e non può essere inteso alla stregua di quello civile, più marcatamente diretto, quest’ultimo, a soddisfare interessi privati e, dunque, più facilmente “sacrificabili” a fronte di parti che mostrino disinteresse a coltivarli e farli valere. Nella giustizia penale, al contrario, prima di tutto entra in gioco quello che è uno dei beni primari dell’individuo: la sua libertà personale, un bene che dovrebbe stare decisamente al di sopra della logica deflazionista. Si tratta, in fondo e banalmente, di vite, non solo meri carichi di ruolo. 


[1] DELLA TORRE J., La crisi dell’appello penale nei prismi della statistica giudiziaria, in Archivio Penale 8/2022, pp. 23 e ss.. Link: https://archiviopenale.it/File/DownloadArticolo?codice=ec0ce80d-e515-4cbf-871b- 48e9c071f664&idarticolo=36405

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