Molti e autorevoli osservatori, anche in Italia, hanno espresso preoccupazione per una decisione che, senza iperboli, può essere definita sconvolgente.  Vale la pena osservare però, anzitutto, che essa – ben al di là della “bozza” fuoriuscita ad inizio maggio – era ampiamente preannunciata, in quanto frutto di istanze politiche e culturali assai radicate e risalenti, perseguite negli ultimi quarant’anni con grande determinazione (nonché fiumi di dollari e instancabile attivismo politico-giudiziario: il c.d. conservative legal movement) e infine realizzate grazie a un mix di fattori. Tra questi mi sento di annoverare, sul piano strutturale-istituzionale, la obsolescenza della disciplina costituzionale relativa a nomina presidenziale, ratifica senatoriale e, specialmente, mandato vitalizio dei giudici (“during good behavior”), non a caso oggetto di ampia discussione in chiave di riforma, e di studio da parte di una commissione presidenziale, che si è unita a fattori casuali, “errori” di valutazione nella scelta strategica sul retirement da parte di precedenti giudici, “constitutional hardball” dei repubblicani nel rifiuto di valutare la nomina di Obama nel 2016, finendo per consegnare a Trump ben tre nomine di giudici supremi in quattro anni (Gorsuch, Kavanaugh, Barrett). Senza contare, cosa assai rilevante pro futuro, i numerosissimi magistrati federali da lui nominati nelle corti d’appello e distrettuali. Il risultato è una super-maggioranza conservatrice attuale della Corte Suprema profondamente disallineata dal paese reale/pubblica opinione americana, come forse di rado lo è stata nella sua storia, per quanto sempre approssimativi e inesatti possano essere i rilevamenti sul punto. Questo anche perché nella elezione del Presidente – il fattore che dovrebbe garantire, sul lungo periodo, tramite il potere di nomina, la natura  “non troppo antimaggioritaria” dell’operato della Corte – entrano in gioco ulteriori aspetti, come il peso eccessivo del sistema del collegio elettorale rispetto al voto popolare (a tutto favore del partito repubblicano). La Corte negli ultimi cinquanta anni è sempre stata a destra, ma perennemente controllata da moderati (c.d. swing justices, che sfuggivano a “incasellamenti” ideologici) sulle questioni più divisive. Oggi non è più così.

Gravi sono i danni alla legittimazione dell’organo e in crollo la fiducia nel rule of law da parte dei cittadini statunitensi, fosche le prospettive future, in vari settori giurisprudenziali, che questa radicale e ampia virata originalista, o forse meglio dire tradizionalista, potrebbe comportare. Ciò anche ben oltre gli altri diritti c.d. non enumerati fondati sulla medesima base normativa del due process sostanziale del XIV Em. (privacy rights lato sensu), la cui cancellazione è stata evocata esplicitamente dal giudice Thomas nella sua opinione concorrente (tra gli altri: gay rights, uso anticoncezionali); in un tempo non troppo lontano egli poteva essere considerato giurista isolato ed eccentrico, oggi, “giudice anziano”, è invece, probabilmente, leader intellettuale ed ideologico della Corte. Penso anche alla decisione del giorno precedente sull’ulteriore, sciagurata, espansione del diritto a portare armi in luoghi pubblici del II Em. (con riduzione dello spazio legittimo di regulation da parte degli Stati e delle autorità locali: qui non si trova traccia della deference nei confronti dei legislatori statali, all’opposto “sacralizzata” in Dobbs), o anche alle tendenze in materia di VIII Em., clausola che vieta pene crudeli e inusuali e manifestamente eccessive. Attraverso la stessa metodologia originalista, tramite quella che viene criticamente detta “law office history” (ricerca storica “amatoriale” da parte di giuristi), si pretenderebbe anche qui – in nome della separazione dei poteri e della democrazia (rectius: di una visione rigidamente assoluta e incondizionata delle stesse) – di annullare la discrezionalità giudiziale, garantire oggettività di giudizio, attribuendo significato certo e conclusivo a fonti storiche molto spesso equivoche e ambigue, sovente per ridurre il contenuto di garanzia delle previsioni costituzionali, “fissandolo” al 1791 (Bill of Rights) o al 1868 (anno in cui fu ratificato il XIV Em., la base normativa del diritto all’aborto). Nei prossimi anni potremmo così assistere all’overruling, o comunque allo “svuotamento”, di precedenti che ad esempio vietano la condanna a morte e l’esecuzione dei minori o dei disabili mentali, fondati su letture della Carta apertamente dinamico-evolutive, fino ad oggi consolidate (come d’altra parte era la pronuncia Roe v. Wade del 1973, ripetutamente riaffermata in seguito), antitetiche a quella rigidamente storica e originalista sostenuta dai magistrati oggi in maggioranza. Si tratta di scenari davvero inquietanti, ma terribilmente concreti. 

Per quanto mi riguarda, avendo avuto occasione di dedicarmi allo studio del sistema U.S.A., ed essendo un profondo ammiratore della ricca cultura costituzionale di quel paese, il dispiacere è doppio. Credo che questa pronuncia, da italiani, oltre a ricordarci che i diritti e la democrazia non sono mai scontati e che bisogna sempre sorvegliare e prendersene cura, ci rammenti una volta di più quanto enorme e impattante sia lo strumento (pur essenziale) del controllo di costituzionalità, che richiede, per funzionare efficacemente ed evitare abusi, il rispetto di delicati equilibri istituzionali e grande cautela e autolimitazione, nonché senso di altissima responsabilità, da parte non solo di chi lo esercita direttamente, ma anche di tutti gli attori politici che contribuiscono alla formazione ed al funzionamento dell’organo. Infine, la politica come sede più appropriata per compiere scelte etiche e proteggere i diritti, vorrebbe dirci la maggioranza della Corte in Dobbs, restituendo i bilanciamenti in via esclusiva ai legislatori statali. Ma se la politica ormai è ridotta a sterile scontro ideologico e identitario, spesso bloccato e incapace di trovare mediazioni e agire per il bene comune dei cittadini, siamo sicuri sia stata una buona idea riportare la questione nel circuito politico? La forma di balancing (cd. undue burden test) che vigeva, fino a ieri, per vagliare la costituzionalità delle misure limitative del diritto di scelta della donna era si molto discrezionale, incerta e malleabile (questo gli originalisti lo detestano), ma aveva funzionato dignitosamente, garantendo un livello minimo accettabile di protezione uniforme su scala nazionale, nonostante le spinte criminalizzanti in molti Stati (notate un aspetto estremamente significativo per capire l’evoluzione storico-politica: tale balancing test era stato elaborato nella sentenza Planned Parenthood v. Casey del 1992 che riaffermò Roe, pur limitandone la portata, da tre giudici supremi di nomina repubblicana: O’Connor, Kennedy, Souter; si veda, dunque, come lo sforzo di diffusione di idee nelle università, think tanks e l’“indottrinamento”, che richiamavo in apertura, in relazione all’approccio originalista – il c.d. conservative legal movement – abbia pagato finalmente i suoi dividendi, raccogliendo i tanto attesi “frutti maturi”. Giuristi moderati e ragionevolmente pluralisti nei metodi interpretativi, aperti al compromesso e alla mediazione, sono oggi quasi estinti di fatto, in un contesto che non è eccessivo definire radicalizzato).

E come ha scritto magistralmente Sabino Cassese sul Corriere della Sera del 27 giugno 2022, la opinione della Corte, ripudiando il compromesso, la mediazione, la cautela, l’autolimitazione – dei quali si trova traccia unicamente nel parere separato del Presidente Roberts che, ormai “isolato”, ha perso la “sua” Corte, nel caso verosimilmente più importante della life tenure – ripudia l’essenza della giustizia costituzionale ben amministrata. Oggi negli U.S.A. regna il caos, con violazioni diffuse dell’autonomia e della dignità e diminuzione dello status di pieni cittadini di milioni di donne americane, specialmente di minoranze e meno abbienti, e si ha una politica se possibile ancora più selvaggiamente polarizzata di prima.  Non è neanche vero che la litigation costituzionale sull’aborto è finita e che la Corte potrà continuare a professarsi “neutrale” sul tema, anzi ci saranno numerosissimi casi relativi ad aspetti collegati (ad es. divieti di viaggiare tra Stati per interrompere gravidanza etc.). Insomma, un disastro. C’è solo da sperare che il nostro (inteso: Italiano) inserimento in sistemi sovranazionali di tutela dei diritti fondamentali e i vincoli che ne derivano, insieme all’indipendenza della magistratura, possano contribuire a scongiurare ulteriori simili involuzioni in tema di diritti. Anche la più lungimirante e equilibrata ripartizione tra diversi soggetti del potere di nomina dei giudici costituzionali, insieme al mandato temporalmente definito – portato di una Legge fondamentale assai più giovane – aiutano in tal senso. Abbiamo visto comunque che il grado di solidità e maturità di un sistema di democrazia costituzionale non è, di per sé stesso, condizione sufficiente ad assicurare la tutela di diritti fondamentali che fino a ieri si dava per scontata. Come diceva il grande William Brennan – giudice associato, in servizio dal 1956 al 1990, “regista” principale della rivoluzione giudiziaria dei diritti degli anni sessanta (tra gli altri: eguaglianza, privacy, libertà d’espressione, diritti di partecipazione politica, diritti degli indagati, imputati e condannati), sotto la Corte presieduta da Earl Warren (1953-1969, precedente alla Corte presieduta da Burger, 1969-1986, periodo in cui si colloca la sentenza Roe, della cui maggioranza Brennan faceva parte) – bastano cinque voti per fare qualsiasi cosa alla Corte Suprema americana (cd. Rule of Five). Purtroppo questa “regola” – che ben esprime, icasticamente e con spietato realismo, l’enorme potere dell’organo – è stata oggi distorta e usata per scopi esattamente opposti a quelli di allora, che, seppur forse con taluni eccessi, erano in definitiva ben più coerenti con il disegno e, soprattutto, con i valori costituzionali personalistici (eguaglianza, dignità, autonomia etc.), intesi anche nella loro interrelazione sistematica, nonché supportati da una legittimazione della Corte nel contesto istituzionale e sociale diversa, figlia di stagioni politiche oggi ormai dimenticate.