Abbiamo intervistato la Dott.ssa Perla Arianna Allegri, assegnista di ricerca nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino, dove insegna Philosophy of Law, nonché membro dell’Osservatorio nazionale di Antigone sulle condizioni di detenzione. Nella sua recente pubblicazione, dal nome “Retoriche rieducative, pratiche penitenziarie e formazione professionale. Una ricerca socio-giuridica nelle carceri italiane”, l’autrice, forte di una ricerca empirica condotta nel biennio 2020-2021, ha messo a confronto la retorica rieducativa con le pratiche, le relazioni e la materialità tipiche del contesto detentivo, anche grazie alle voci delle persone recluse, degli operatori penitenziari e di coloro che, a vario titolo, sono incaricati della formazione professionale nel campo del penitenziario.


*crediti della foto in calce all’articolo

Nella sua ricerca è emerso uno specifico dato sulla parte di popolazione reclusa cosiddetta “volenterosa”. Esisterebbe una competizione, fra le persone recluse, nell’avere un comportamento tale da permettere loro l’ingresso in una determinata sezione di un istituto penitenziario anziché in un’altra. Ciò, in ragione di condizioni detentive migliori, celle più dignitose e meno sovraffollate, attività di trattamento maggiormente fruibili. In quale rapporto si pone questa forma di premialità con il principio d’individualizzazione del trattamento?

Introdurre risorse – perlopiù finite, per definizione – nel campo dell’esecuzione penitenziaria vuol dire, necessariamente, subordinarle a logiche di selezione degli utenti. Darsi da fare, farsi vedere impegnati, affidabili e volenterosi è il modo in cui le persone recluse dimostrano di meritarsi la fiducia dell’istituzione, che premia chi è più motivato. Queste dinamiche di competizione fra reclusi sono strumentali all’accesso tanto al mercato del lavoro interno e all’offerta formativa professionale quanto a condizioni detentive (e perciò di vita) migliori, in padiglioni o sezioni considerati maggiormente “trattamentali”. La questione delle risorse e dei meccanismi di premialità si unisce, in molte realtà, all’inadeguatezza degli spazi e alle rigidità architettoniche che costituiscono un ulteriore limite agli obiettivi formativi, relegando l’istituzione penitenziaria a mero spazio custodiale anziché educativo-formativo. Le condizioni strutturali, così come le linee amministrative di gestione degli istituti, variano in maniera così sostanziale l’uno dall’altro tanto da introdurre il concetto di «individualismo penitenziario» secondo cui, appunto, ogni istituto costituisce un mondo a sé, con dinamiche proprie e interventi formativo-lavorativi distinti. Tutto ciò può dar luogo anche a geografie variabili, a discrasie applicative del diritto al trattamento che sollevano alcune perplessità circa l’esigibilità e la giustiziabilità del diritto individuale di ciascun detenuto al proprio percorso rieducativo. Statuire il diritto alla rieducazione sancisce, da un lato, il diritto per gli imputati, i condannati e gli internati a partecipare, su base volontaria, all’offerta trattamentale, dall’altro, invece, l’onere nei confronti dell’Amministrazione penitenziaria di organizzare queste attività. L’accesso alle stesse, perciò, non dovrebbe differire tra un territorio ed un altro, né tra un istituto penitenziario ed un altro. La tutela del diritto alla rieducazione della persona detenuta trova fondamento nella pari dignità sociale delle persone ristrette, e non deve in alcun modo essere economicamente condizionato.

Con l’avvento dell’emergenza sanitaria da Covid-19 sono emerse diverse vulnerabilità nella realtà carceraria. Lei ha menzionato, ad esempio, il tema dello spazio in rapporto ai corsi di formazione professionale. Quali ripercussioni, a suo avviso, hanno inciso maggiormente?

Il duro impatto che l’emergenza sanitaria ha avuto a partire dai primi mesi del 2020 ha isolato più che mai il sistema carcerario dal mondo esterno. Con i primi provvedimenti di chiusura dell’istituzione penitenziaria, la popolazione ristretta si è vista privata non solo della possibilità di incontrare le famiglie e gli affetti più vicini, ma anche tutti quei soggetti che quotidianamente prestavano servizio all’interno delle mura detentive (insegnanti, volontari, responsabili esterni delle attività formative e così via). La grande maggioranza dei progetti formativi, per non dire la totalità, ha subito una forte battuta di arresto a causa del divieto di ingresso di soggetti terzi all’interno dei penitenziari e della mancata possibilità di effettuare la formazione in videoconferenza – o comunque da remoto –, a differenza di quanto è invece accaduto per i corsi scolastici. Nel corso del primo semestre del 2020 sono stati attivati solo 92 corsi di formazione professionale, rispetto ai 203 del secondo semestre del 2019 e ai 274 del primo semestre del 2023. Molti degli spazi formativi sono stati utilizzati per altri fini, e solo in pochi casi si è potuta garantire, attraverso una certa flessibilità nella gestione degli spazi, la continuità dei corsi professionali che, a differenza di quelli scolastici, richiedono modalità di somministrazione più pratiche. L’approccio pratico, così come il lavoro manuale sui macchinari, è riconosciuto dalla letteratura sul tema come elemento dirimente per aumentare l’efficacia dei programmi di formazione professionale. È chiaro, allora, che l’avvento dell’emergenza sanitaria ha segnato una lunga interruzione di questa specie di attività, che dovevano svolgersi nei laboratori e alla presenza dei docenti. Fortunatamente i corsi sono ripresi in quasi tutti gli istituti, che hanno rilanciato l’offerta formativa sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo.

A fronte del ruolo ormai centrale di Internet nella nostra società, come crede che debba porsi l’Amministrazione penitenziaria? È una via percorribile negli istituti di pena?

Il divario digitale tra carcere e società dei liberi è forse una delle condizioni più anacronistiche dell’esecuzione penale nel nostro Paese. Ad oggi, ad eccezione degli studenti detenuti iscritti a corsi universitari, sono pochissime, se non nulle, le sperimentazioni digitali negli istituti di pena. Fino all’utilizzo dei dispositivi cellulari per le videochiamate, il sistema penitenziario italiano era rimasto impermeabile alla rivoluzione digitale, tanto da generare una sempre più ampia divaricazione temporale tra un carcere anacronistamente analogico, da una parte, e la società digitale, dell’intelligenza artificiale, dall’altra. Assistiamo a sporadiche sperimentazioni digitali come l’esperimento in videochiamata dei colloqui, anche via Skype, che esulano però da tutte quelle altre ricadute che l’avvento di Internet in carcere potrebbe fornire. Si pensi, nello specifico, alle cartelle cliniche informatizzate che permetterebbero una raccolta e un costante aggiornamento dei dati medico-sanitari della persona detenuta, molto utili per i trasferimenti e per le scarcerazioni. L’accessibilità alla rete avrebbe altresì un’incidenza determinante anche su tutte le procedure amministrativo-burocratiche legate alla cittadinanza, alle pratiche di invalidità, disoccupazione e contributi alle risorse familiari, a cui per anni ha ovviato il personale penitenziario, insieme ai volontari, ai patronati e ai Garanti delle persone private della libertà personale. La corsa alla digitalizzazione nei nostri istituti di pena è ancora lontana da quelli che sono gli elementi minimi dell’alfabetizzazione informatica: ad oggi, infatti, gran parte della popolazione non solo non ha accesso a Internet, ma nemmeno a un computer che possa navigare nelle cosiddette white list dei siti concessi dall’Amministrazione penitenziaria. A mio parere, in vista del superamento del tabù digitale e del digiuno tecnologico a cui le persone ristrette sono sottoposte, occorre che l’Amministrazione penitenziaria tenga bene a mente i principi fondamentali delle Regole penitenziarie europee nel momento in cui non garantisce che la vita in carcere sia il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera, di fatto instillando un nuovo divario, rappresentato da un analfabetismo o da un grave ritardo informatico tra la persona detenuta e la sua reintegrazione nella società dei liberi.

“È un diritto riconosciuto, è una fatica organizzarlo”. Quanto influisce la questione territoriale? Il fatto di trovarsi in un in un certo istituto penitenziario e quindi in un determinato territorio, piuttosto che in un altro?

La questione territoriale, come dicevo poc’anzi, è davvero rilevante nell’esercizio e nella giustiziabilità del diritto ad un trattamento rieducativo. La realtà formativa risulta sdoppiata innanzitutto per quanto concerne la somministrazione dei corsi. Da un lato, infatti, l’istruzione professionale viene erogata dalle strutture statali, ossia attraverso i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti (CPIA), che hanno durata triennale e la cui frequenza viene remunerata; al termine del corso, viene conseguito un diploma professionale riconosciuto a livello nazionale ed europeo. Dall’altro lato, la formazione professionale è affidata agli enti convenzionati con le regioni tramite bandi, e offre corsi formativi più agili (circa 600 ore), modulabili, al termine dei quali vengono accertate le competenze apprese e viene rilasciata una certificazione con valenza nazionale ed europea. Questo, però, senza la corresponsione di un emolumento per i frequentanti. Infatti, in alcuni istituti l’offerta formativa fatica a essere attivata, soprattutto da quando la gestione è passata in capo al sistema regionale. L’avvio dei corsi dipende anche e in gran parte dall’esito positivo del bando di concorso per l’utilizzo dei fondi regionali o di quelli della progettazione europea. Le proposte formative, basate sui fabbisogni segnalati dagli istituti penitenziari, non sempre hanno la possibilità di essere attuate, lasciando, di conseguenza, alcune carceri prive di offerte professionalizzanti. Il quadro che emerge è tutt’altro che omogeneo, con molti istituti che presentano buone opportunità e altri in cui queste sono del tutto assenti o fortemente limitate.

Crede che i corsi d’istruzione proposti all’interno degli istituti penitenziari siano da legare, in prospettiva, ad un inserimento lavorativo?

Se parliamo di corsi d’istruzione professionale, allora è indubbio che il percorso scolastico debba sviluppare sia le competenze di base che, più in particolare, quelle specifiche tecnico-professionali, che servono ad apprendere le abilità del profilo professionale di riferimento. In generale, credo che sia necessario utilizzare il periodo della detenzione come momento di investimento personale, e non come tempo vuoto. Le esigenze individuali di trattamento del singolo detenuto sono diverse: alcune persone hanno una scolarità bassa, altre sono già altamente formate. L’approccio migliore parrebbe essere quello olistico, orientato sulle esigenze e le inclinazioni della persona a tutto tondo. Le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa R (89) 12 sull’attività educativa negli istituti penitenziari fanno infatti riferimento all’istruzione nel senso più ampio del termine, sostenendo che tutte le persone ristrette devono avere accesso non solo ai corsi di base, ma anche ai corsi professionali e alle attività culturali e ricreative, ai corsi di educazione fisica, sport e servizi di biblioteca. Si è andata perciò consolidando una visione dell’istruzione di ampia portata e respiro, che si discosta dai corsi scolastici e include diverse attività di apprendimento, formale e informale, di carattere sia generale che professionale, allo scopo precipuo non solo di migliorare le proprie prospettive lavorative, ma anche di ottenere competenze informali (cd. life skills) che permettano di comporre un bagaglio di conoscenze utilizzabili in contesti non esclusivamente legati al campo lavorativo. Si tratta di elementi indispensabili per un percorso di assunzione di responsabilità e investimento sulla ridefinizione delle proprie padronanze, finalizzato ad una compiuta realizzazione del potenziale di ciascun individuo. In conclusione, è importante assicurare a tutti pari opportunità di raggiungimento di buoni livelli culturali e di conseguimento di competenze coerenti con le attitudini e le scelte personali – adeguate all’inserimento nella vita sociale – e, ove possibile, fornire una formazione professionalizzante o elevare la professionalità dei soggetti già qualificati per assicurare un proficuo accesso al mercato del lavoro.

Visto che una delle funzioni della pena è il reinserimento sociale, come spiega la presenza maggioritaria in carcere delle forze di polizia penitenziaria rispetto alla figura del funzionario giuridico-pedagogico?

In generale, esiste un problema di risorse umane all’interno degli istituti penitenziari. Mancano direttori, assistenti di polizia penitenziaria e funzionari giuridico-pedagogici. In Italia abbiamo alcuni istituti con una buona presenza di personale giuridico-pedagogico, nel rapporto di 1 educatore ogni 31 detenuti; altri in cui, invece, la situazione è di 1 educatore ogni 154 detenuti. Se invece valutiamo il numero del personale di polizia, la media italiana è quella di 1 agente ogni 1,9 detenuti. Una differenza sorprendente con i numeri citati prima, e che ha pochi eguali in tutta Europa. Questa disparità ci restituisce un chiaro messaggio sulla reale finalità della pena, legata al contenimento e al controllo della persona piuttosto che alla sua risocializzazione. Occorrerebbe modificare le politiche penitenziarie e il rapporto numerico fra le diverse professionalità in carcere per tentare di avvicinarci alla media europea, dove la presenza di personale che opera nell’area trattamentale è maggiore. In questo modo, potremmo potenziare la presa in carico dei soggetti ristretti e l’attivazione di percorsi di reinserimento sociale, evitando di rendere il carcere un mero luogo di contenimento e stigmatizzazione.


*foto ricavata dall’articolo Carceri che scoppiano, in 5 giorni 100 detenuti. Il Garante: “Più misure alternative” pubblicato sull’HuffPost