Se è vero che il percorso di erosione dello Stato di diritto e del sistema costituzionale delle garanzie individuali ha avuto il suo principio nell’affermazione della legislazione d’eccezione in chiave antiterroristica e antimafia, secondo la logica perversa della “perenne emergenza” in realtà mai scomparsa, è altrettanto vero che è dall’avvio dell’inchiesta di Mani Pulite che ha preso vita una nuova versione, assai più dannosa e virulenta, di populismo penale e di populismo giudiziario. Dal 17 febbraio 1992, data dell’arresto di Mario Chiesa, esponente del Partito Socialista Italiano e presidente del Pio Albergo Trivulzio, ha avuto inizio Tangentopoli, con tutto il suo carico di abusi ed ingiustizie. E’ difficile riassumere in poche righe gli eccessi di quella fase: dalla violazione sistematica del segreto istruttorio e della presunzione d’innocenza, all’utilizzo improprio della carcerazione preventiva, trasformato da strumento cautelare a mezzo per esercitare pressione nei confronti degli indagati (“non mettevamo dentro quelli che avevano parlato, li mettevamo dentro per farli parlare”, Davigo), senza dimenticare la lesione del principio del giudice naturale giustificata sotto la poco convincente egida delle regole organizzative dell’ufficio (come raccontato di recente dal giudice Guido Salvini riferendosi al caso del g.i.p. Italo Ghitti).
Da quel momento, guardando oltre i singoli casi e le vicende particolari, è necessario registrare un dato. Da Tangentopoli è cambiato radicalmente l’approccio mediatico al tema della giustizia e si è registrata una vera e propria mutazione del ruolo della pubblica accusa, cui è seguita un’impropria alterazione dei rapporti tra il potere giudiziario e quello politico. E’ emerso in quegli anni un diverso ruolo del giornalismo, che si è sempre più trasformato in cassa di risonanza delle posizioni delle Procure e delle istanze punitiviste, gridate sui giornali, ora come allora, non come ipotesi ma come dogmi inscalfibili fino a prova contraria, in aperto contrasto con il principio di presunzione d’innocenza. Il pool di Mani Pulite, in quel contesto, si è imposto come unico interprete di un preteso “autentico sentimento popolare”, si è presentato come unico garante delle esigenze di giustizia dei cittadini, ha pienamente incarnato le pulsioni giustizialiste di larga parte degli italiani. Il ruolo meramente tecnico di quei magistrati, unica legittimazione della loro competenza sul caso, è stato affiancato e fagocitato dalla loro effettiva funzione di supplenza politica. Come ha scritto il politologo Mauro Calise, “è con la crisi di Tangentopoli che si assiste al repentino prorompere sulla scena delle toghe come protagoniste delle svolte chiave della transizione italiana. Il pool di Mani Pulite si afferma come il principale avversario dei partiti di governo e del loro ceto parlamentare, assurgendo nell’immaginario pubblico a simbolo dell’azzeramento e rinnovamento del sistema”. La trasformazione della figura del pubblico ministero, da necessaria parte del processo a restauratrice dell’ordine e della morale, ha prodotto, tra le altre conseguenze, una percezione errata del diritto penale. In assenza di valori condivisi e uscita di scena la “repubblica dei partiti”, il diritto penale è stato identificato come una “nuova etica pubblica” (Massimo Donini). Di lì a breve, come scritto con grande efficacia da Giancristiano Desiderio, “la vita morale dell’italiano ha preso la forma di una procura”.
Una politica da un lato incapace di reagire all’assalto giudiziario e dall’altro ben contenta di sfruttare strumentalmente e in chiave demagogica l’onda populista, dopo aver disintegrato l’istituto dell’immunità parlamentare (danneggiando gravemente la separazione dei poteri) e aver liquidato il “decreto Biondi” (che tutto era tranne che una “legge salva ladri” come volgarmente considerata dagli alfieri del giustizialismo italiano), ha utilizzato con sempre maggiore intensità la “strategia della blame-deflection – consistente nello ‘scaricare’ sul potere giudiziario questioni che le istituzioni politiche non intendono affrontare, di solito perché i costi che dovrebbero affrontare sarebbero superiori ai benefici” (Enrico Amati), delegando sempre maggior potere decisionale alla magistratura e favorendo indirettamente anche la nascita del successivo fenomeno del creazionismo giudiziario. Da Mani pulite in avanti, vi è chi sostiene che si sia passati dalla democrazia del confronto alla democrazia dell’imputazione: da una Repubblica organizzata secondo la competizione dei partiti, ad un modello nel quale sempre più spazio è stato acquisito dalla responsabilità penale, proprio per compensare il mancato funzionamento della responsabilità politica. A trent’anni dal 17 febbraio 1992, anche se qualcosa è cambiato e, quantomeno, si affermano e acquistano spazio anche versioni diverse da quella celebrativa e agiografica nei confronti del pool, gli effetti nefasti di quell’esperienza sono ancora vivi e diffusi, in grado di produrre, ora come allora, disastri giuridici e politici. Anche per questo, è più che mai necessario continuare a battersi perché su quel periodo si rifletta attentamente, in modo critico, per far riemergere e misurare tutte le storture che non appartengono solo al passato, ma riguardano tutt’oggi il nostro Paese.
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