L’informazione antimafia interdittiva è disciplinata dagli artt. 84 e 91 del codice antimafia. Si tratta di una misura fortemente anticipatoria che ha l’obiettivo di impedire l’accesso alla criminalità organizzata di stampo mafioso nel circuito economico lecito. Innanzitutto bisogna precisare che tale provvedimento prescinde da un accertamento di responsabilità penale in ordine ai vari soggetti, che nell’ambito dell’attività imprenditoriale entrino in rapporti con la Pubblica Amministrazione, e si fonda sugli adempimenti svolti da differenti organi di polizia, valutati dal Prefetto territorialmente competente.
Una prima questione riguarda l’ampia discrezionalità del Prefetto in materia. Il rischio che si corre è quello di lasciare nelle mani dell’autorità prefettizia un potere di valutazione troppo ampio, in grado (da solo) di arrestare sul nascere le prospettive di un’impresa di contrattare con la Pubblica Amministrazione. Vero è che nel provvedimento è essenziale dar conto di specifici elementi di fatto, concretamente rivelatori di un legame o collegamento con associazioni malavitose, tuttavia non è necessario raggiungere quello standard probatorio richiesto per attribuire l’appartenenza di un soggetto ad un’associazione ex 416 bis del codice penale, vale a dire “oltre ogni ragionevole dubbio”.
Il Consiglio di Stato ha però confermato in più pronunce la legittimità della disciplina. Secondo giurisprudenza costante interna allo stesso, infatti, il predetto eccesso di discrezionalità in capo al Prefetto sarebbe risolto ab origine, in fase di adozione dell’interdittiva, in base al criterio del “più probabile che non”, ossia alla luce di una regola di giudizio che pur basandosi su meri elementi indiziari, richiede che questi vengano messi a sistema secondo i noti requisiti della gravità, precisione e concordanza. Cosi la giurisprudenza: “Il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa.
Le conclusioni dell’autorità prefettizia, dunque, devono essere in grado di far ritenere il rischio di infiltrazione mafiosa razionalmente credibile, in base ad una valutazione dei fatti oggettiva ed onnicomprensiva. Si segnalano a questo proposito: la condanna, anche non definitiva per taluni delitti da considerare sicuri indicatori della presenza mafiosa (art. 84, comma 4, del codice antimafia); la mancata denuncia, da parte dell’imprenditore, di delitti di concussione ed estorsione; la condanna per reati strumentali all’attività del crimine organizzato (art. 91, comma 6, codice antimafia); la sussistenza di vicende organizzative, gestionali, o anche solo operative che, per le loro modalità, lascino intendere un intento elusivo della legislazione antimafia. A ciò si aggiunga che le c.d. “spie” di condizionamento mafioso non si esauriscono qui, in quanto è insegnamento costante della giurisprudenza come il fenomeno mafioso possa assumere “forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone” e dunque sfugga ad un inquadramento puntuale. Pertanto è ormai assodato che i tentativi di infiltrazione possano assumere svariate forme, anche differenti da quelle tipizzate dalla legge, ma altrettanto “spie” del condizionamento mafioso. La Terza Sezione del Consiglio di Stato si è così pronunciata in una recente sentenza di inizio anno: “La funzione di “frontiera avanzata” dell’informazione antimafia nel continuo confronto tra Stato e anti-Stato impone, a servizio delle Prefetture, un uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi”. Pertanto si noti che gli elementi posti a base del provvedimento interdittivo possono essere anche penalmente irrilevanti, non costituire oggetto di alcun processo o procedimento penale, o paradossalmente, aver portato ad una sentenza di proscioglimento o di assoluzione nel merito.
Ad esempio, quanto ai rapporti di parentela, si segnala come essi debbano rilevare solo quando l’impresa attenzionata “abbia una conduzione collettiva e una regia familiare”; si esclude che, di per sé, debba ritenersi che “il parente di un mafioso sia anch’egli un mafioso”. E ancora, sul problema delle frequentazione tra colui che dirige l’impresa e soggetti coinvolti nella criminalità organizzata, essa rileva solo ove possa desumersi che l’imprenditore “scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi”.
Gli effetti dell’interdittiva, sono decisamente afflittivi. Ad essa consegue l’impossibilità di contrattare con le pubbliche amministrazioni (ad esempio partecipare ad un gara d’appalto) e la caducazione di tutti i rapporti contrattuali eventualmente in essere. Si è parlato, a tal proposito, di “ergastolo imprenditoriale” o di “pena di morte dell’ente”.
In definitiva la disciplina, pur ampiamente integrata dalla giurisprudenza, non è e non può essere precisa. Tutto ciò a favore della opinabilità e delle valutazioni soggettive le quali poi sfociano, o potrebbero sfociare, in esiti spesso differenti ed imprevedibili, nonostante siano in gioco diritti costituzionalmente garantiti. Ed è qui che si innesta la critica, o quantomeno il ragionamento critico sul tema poiché se l’ipotesi dell’infiltrazione non raggiunga un sufficiente, verificato livello di probabilità, il fondamento dell’interdittiva diverrebbe il semplice sospetto o peggio, le congetture, illazioni, presunzioni dell’autorità di polizia. Con insopportabile pregiudizio per principi di civiltà alla base del nostro ordinamento.
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