Tra i pensatori illuministi che si sono occupati di giustizia, da Montesquieu a Beccaria, il nome del modenese Lodovico Antonio Muratori è forse tra i meno noti. Eppure, molto dell’impegno intellettuale muratoriano è stato rivolto alle condizioni della giustizia, a proposte di riforma del diritto amministrativo, civile e penale e alla denuncia dei “difetti della giurisprudenza” (così, Muratori intitolò una sua opera del 1742). Nel corso della sua serrata argomentazione sulle storture interpretative del diritto, l’erudito riporta al lettore un apologo sul costo e sull’inutilità di alcune lungaggini processuali: ve lo riportiamo qui.

Che il Settecento italiano abbia contribuito in modo significativo alla riflessione sulla giustizia è un dato noto, e certificato da un’ampia bibliografia più o meno specifica (che non è il caso qui di citare). Alcuni nomi sono entrati – e forse, in realtà, già usciti – nell’immaginario collettivo: basti qui ricordare, rimandando ad altre occasioni considerazioni più estese, la straordinaria riflessione sulla tortura e sulla pena di morte svolta nel Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, e con essa i suoi riverberi e le sue influenze nella storia e nello sviluppo del diritto penale, nonché nelle idee di un ben noto nipotino (non in senso gramsciano) dell’erudito milanese, Alessandro Manzoni. Ma non dovrebbe essere il solo Beccaria, tra i personaggi che hanno animato la cultura e l’impegno civile del Settecento europeo, a suscitare gli interessi dei giuristi. Tanti altri intellettuali, nomi più o meno importanti, si occuparono dell’annoso tema delle ‘leggi’ e della giurisprudenza; per dirla con Franco Venturi (che del Settecento e delle sue idee è stato uno degli studiosi più raffinati), fu infatti proprio nel ‘700 che il «nodo che da millenni si era formato unendo con mille fili peccato e delitto, crimine e colpa» venne «tagliato da Beccaria d’un colpo netto» (Utopia e riforma nell’Illuminismo, Torino 1970, p. 125). Il ‘colpo netto’, giustamente attribuito a Beccaria, fu però preparato da pagine e pagine di riflessioni, che muovendo da Montesquieu e dall’illuminismo francese arrivarono alle colonne dei periodici italiani. Ospitò ampie riflessioni in fatto di giustizia, politica e giurisprudenza, tra gli altri, il periodico milanese Il Caffè, diretto dai fratelli Verri e pubblicato per un intenso biennio tra il 1764 e il 1766, gli stessi anni in cui, peraltro, veniva dato alle stampe il Dei delitti e delle pene.

Tra i nomi che meritano di essere ricordati, a proposito di giustizia, c’è sicuramente quello di Lodovico Antonio Muratori (1672-1750). Un nome che forse ai più dirà poco o niente, la cui vicenda è forse opportuno riprendere, per sommi capi, qui. Muratori è stato tra gli eruditi italiani più importanti del XVIII secolo. Originario di Vignola, cittadina del modenese in cui nacque nel 1672, Muratori rappresenta plasticamente l’intellettuale settecentesco ‘a tutto tondo’: fu infatti impegnato in molti campi del sapere, a partire dai primi anni della sua formazione, che avvenne tra le mura del Collegio San Carlo di Modena e si concentrò su materie letterarie, filosofia e diritto. Bibliotecario di professione, dopo un lungo tirocinio tra i manoscritti della Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, l’erudito concentrò i suoi sforzi su materie storiche (in particolare, s’interessò di Medioevo), antiquaria e numismatica e religione, mantenendo sempre fede alla vocazione enciclopedica per cui già si era distinto nei primi anni delle sue ricerche e dei suoi studi (si laureò, inoltre, in diritto civile ed ecclesiastico). Come ogni buon intellettuale illuminista, però, Muratori non fu erudito per il solo gusto d’esserlo (o di proclamarsi tale); a dispetto di una certa farraginosità di alcune sue opere, difficilmente appetibili per il lettore d’oggi, il suo impegno fu sempre rivolto anche alla politica e alla società. La sua storiografia e la sua filosofia si intrecciarono in modo virtuoso con la politica e la riflessione sulla gestione dello Stato: la sua opera più significativa, il Della pubblica felicità (1749), copre infatti numerosissimi campi dell’amministrazione pubblica. Tutte le sue opere ‘mature’, se lette attentamente, lasciano infatti trasparire un impegno nel rinnovamento della società, nella riforma degli ordinamenti legislativi, nella gestione della cosa pubblica.

Due opere in particolare ci devono interessare qui: dal punto di vista prevalentemente giuridico- amministrativo, il cimento più importante di Muratori è di sicuro rappresentato dall’epistola De codice carolino sive de novo legum codice instituendo, datata 1726. La lettera, inviata da Muratori al re Carlo VI d’Asburgo, trattava diverse tematiche di diritto, prospettando al re una riforma che avrebbe semplificato il panorama giuridico allora particolarmente confuso e difficilmente maneggiabile dai cittadini, soprattutto a causa dell’ampia mole di pareri e interpretazioni giurisprudenziali sedimentatasi nel corso dei secoli. Ma l’opera più importante di Muratori, in fatto giurisprudenziale, è rappresentata dal Dei difetti della giurisprudenza: nel volume, dato alle stampe nel 1742 (a differenza della lettera a Carlo VI, che rimase inedita fino agli anni ’30 del Novecento), confluivano molte delle riflessioni sviluppate fino a quel momento in fatto di diritto da Muratori. Come già si comprende dal titolo, il nodo centrale della riflessione muratoriana consisteva nell’individuazione e la discussione dei ‘vizi’ intrinseci al mondo del diritto e dell’esercizio del diritto. Manuela Bragagnolo, in uno studio filologico sulle carte di Muratori in Ambrosiana, ha evidenziato come la questione delle storture e dei sofismi giuridici avesse interessato Muratori fin dai primi tempi della sua formazione: in un articolo apparso sulla rivista Muratoriana Online nel 2014, la studiosa ha per esempio dimostrato come Muratori avesse letto attentamente un’operetta secentesca, compilata da Giovanni Ingegneri, intitolata Contra la sofistica disciplina de’ Giureconsulti e ne avesse tratto esplicite menzioni nel Delle riflessioni sopra il buon gusto, del 1715. Riassumendo e semplificando drasticamente le posizioni dell’erudito modenese, quel che sembra non andare giù a Muratori è l’incertezza del diritto; con essa, la denuncia è rivolta in particolare agli espedienti sofistici adoperati dagli avvocati, la lungaggine e i continui rinvii negli itinera processuali, le arbitrarietà interpretative dovute allo stato «del diritto come era stato sancito dal codice giustinaneo e frammentato da secoli di glosse e interpretazioni oziose», come ha ricordato uno tra i più illustri studiosi contemporanei dell’opera Muratori, Fabio Marri (cf. Marri-Terreni-Franceschini, Prove di lettura,  Bologna 2014, p. 115).

Oltre a tutto ciò a cui s’è accennato (e a causa di tutto ciò), Muratori denunziò in termini molto severi l’impossibilità da parte delle classi meno abbienti di difendersi secondo diritto: non tutti – notava in termini molto attuali già nel Settecento – sono infatti in grado di sostenere le spese di processi procrastinati arbitrariamente per mesi e anni. L’opera di Muratori non si limitò però all’argomentazione giuridico-filosofica e alla denuncia politica: con spirito pienamente illuminista, l’erudito contribuì a dar consiglio ai sovrani interessati a proposito di molte questioni di pubblico interesse. Non sempre la sua voce fu ascoltata e le sue parole messe in pratica: i suggerimenti estesi a Carlo VI d’Asburgo, ad esempio, non furono seguiti e rimasero ‘lettera morta’. Ma la storia diede ragione all’illuminista: nei decenni successivi alla morte di Muratori, «alcuni sovrani più illuminati in Italia, come Carlo Emanuele III di Savoia nel 1770 e soprattutto Francesco d’Este a Modena nel ’71, emanarono proprie costituzioni ispirate alle idee di Muratori (a Modena la stesura materiale del codice fu opera di allievi muratoriani, come lo era stato lo stesso duca)» (ibidem). La semplificazione del diritto, culminata con le riforme napoleoniche di primo Ottocento, fu infatti affrontata a séguito di un lungo dibattito partito proprio dall’Illuminismo europeo.

Alcuni problemi, però, rimangono comuni alla riflessione sulla giustizia di tutti i tempi: è il caso della lunghezza dei processi, che viene stigmatizzata tramite un simpatico apologo riscoperto da Fiorenzo Forti e Giorgio Falco (che hanno curato una celebre antologia di opere di Muratori, edita da Ricciardi nel 1964), e ripreso poi recentemente da Fabio Marri (dalla cui antologia lo citiamo qui). Per quanto spesso difficilmente affrontabile agli occhi di un lettore che non se ne occupi per interessi specialistici (credo infatti sia capitato a pochi di leggere per diletto personale opere d’erudizione settecentesca), il dettato di Muratori, innovativo in termini linguistici, scandito da argomentazioni serrate, frequenti menzioni e rimandi alla letteratura classica, alla filosofia (classica e contemporanea) e al diritto, regala alcune perle come quella che riportiamo qui, augurando ai giuristi che la leggeranno, oltreché buona lettura e buone ferie, buona riflessione. Dal cap. XIV del Dei difetti della giurisprudenza (ora in F. Marri-R. Terreni-P. Franceschini, Prove di lettura, Bologna 2014, p. 115-123).

I gatti al tribunale dello scimmione

“(1) La conclusione di tutto questo si è che soverchia e sterminata lunghezza delle liti per tante sottigliezze, giri e rigiri inventati dall’acutezza de’ causidici, è divenuta un male familiare dell’Italia e di tant’altri paesi cristiani, e male di sommo incomodo e danno a chiunque per sua disavventura dee fare o sostener delle liti. (2) Quand’anche si tratti di un credito liquido ed incontrastabile, a cui non v’ha giusta opposizione alcuna, e che dovrebbe sbrigarsi alla prima comparsa del debitore, se questi ricorrerà a un proccuratore onorato, gli saprà questi, colle sole eccezioni generali e molto più col resto delle cavillazioni, che non mancano a chi ne vuole, guadagnar più mesi di respiro a soddisfare. (3) Anzi, alcuni statuti talmente assistono al debitore che quasi li direi composti da’ dottori, bisognosi anch’essi di pagare il più tardi che potessero i debiti propri. E con tante istanze e risposte, pruove, ripruove e decreti, sì fattamente s’ingrossano i processi, scritti con tre parole per riga, che la spesa ‘dessi, aggiunta alle sportole, al salario degli avvocati, de’ proccuratori, de’ sollicitatori, de’ messi pubblici ecc., fa piagnere chi ha vinto, non solo chi ne esce perditore. (4) Raccontasi a questo proposito un apologo. Nel tempo che le bestie parlavano e viveano divise in varie repubbliche, fecero lega due gatti con promessa di partire ugualmente fra loro tutto quel che andassero rubando. Avendo un dì cadaun d’essi rubato un pezzo di formaggio, nacque discordia fra loro, pretendendo ciascun d’essi che il pezzo suo fosse minore dell’altro ed esigendo il supplemento. Furono vicini a decidere la controversia coll’unghie, ma il più assennato ottenne che si rimettesse l’affare al giudice. (5) Giudice pubblico si trovò allora uno scimione, che avrebbe insegnata la giurisprudenza a Bartolo [ovvero: Bartolo da Sassoferrato]. Costui, udito il litigio, immediatamente fece portar le bilance, e si trovò che l’uno de’ pezzi del formaggio pesava due once di più dell’altro: allora il valente giudice, per uguagliar le partite, si attaccò ai denti il pezzo soprabbondante e saporitamente sel masticò. (6) Ma per disavventura tanto ne portò via che, rimessi i pezzi sulle bilance, il primo eccedente si trovò mancante d’un’oncia rispetto all’altro. E qui il buon giudice, preso l’altro pezzo, parimente l’afferrò co’ denti, e ne portò via quanto gli piacque e sel mangiò.(7) Veduto sì bel giuoco, si guatarono l’un l’altro i litiganti, e l’un d’essi rivolto al giudice: – Messere, gli disse, se tali son le bilance della giustizia, tutti e due noi avremo infine la sentenza contro. M’è sovvenuto adesso un modo più sicuro d’accordarci insieme. – E presi con bella grazia i pezzi rimasti se n’andarono amendue a mangiarseli in santa pace”.