La Corte Costituzionale, il 10 maggio, ha nuovamente sospeso il processo costituzionale concernente la legittimità dell’esclusione assoluta del condannato all’ergastolo ostativo per associazione o agevolazione mafiosa, che non abbia collaborato con la giustizia, dall’accesso alla liberazione condizionale; in particolare, si tratta degli artt. 4-bis comma 1 (disciplinante le preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari per i condannati o internati per determinati delitti che non collaborano con la giustizia o che non si trovano in una condizione parificata, ovverosia collaborazione impossibile o irrilevante) e 58-ter della legge n. 354 del 1975, e dell’art. 2 d. I. n. 152 del 1991, convertito, con modificazioni, nella legge n. 203 del 1991. La riassunzione della causa avverrà tra 6 mesi, nell’udienza pubblica fissata il prossimo 8 novembre.


Una soluzione che, come anche affermato da Tullio Padovani, poteva risultare prevedibile. Infatti, nell’ordinanza n. 97 del 11 maggio 2021, la Corte Costituzionale aveva sancito la non compatibilità con la Costituzione del meccanismo ostativo «se e in quanto [la collaborazione con la giustizia] risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale»; ciononostante, i giudici di Palazzo della Consulta non si erano spinti a dichiarare formalmente l’illegittimità costituzionale della norma perché «Un accoglimento immediato delle questioni proposte [..] comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame», e avevano così deciso di concedere «al Parlamento un congruo tempo – un anno – per affrontare la materia», fino alla nuova udienza del 10 maggio 2022. Finora, però, soltanto la Camera dei Deputati ha approvato una proposta di riforma, la quale è stata trasmessa al Senato lo scorso 1 aprile. Per questo motivo, il Presidente della Commissione giustizia del Senato aveva richiesto un’ulteriore proroga «per consentire la prosecuzione e la conclusione dei lavori di Commissione»; una sollecitazione prontamente recepita dall’Avvocatura di Stato e sottoposta alla Corte Costituzionale, la quale – come anticipato – l’ha accolta con ordinanza. Non a caso, nella motivazione della decisione letta in udienza, i giudici costituzionali hanno affermato che «Permangono inalterate le ragioni che hanno indotto [..] a sollecitare l’intervento del legislatore, al quale compete, in prima battuta, una complessiva e ponderata disciplina della materia, alla luce dei rilievi svolti nell’ordinanza n. 97 del 2021. [..] Proprio in considerazione dello stato di avanzamento dell’iter di formazione della legge appare necessario un ulteriore rinvio dell’udienza, per consentire al Parlamento di completare i propri lavori».


Un comportamento, quello della Consulta, di considerevole self-restraint particolarmente ossequioso degli equilibri costituzionali e, nello specifico, del monopolio del Parlamento sugli aspetti discrezionali e valutativi che caratterizzano una disciplina, come quella in esame, così delicata da non poter essere travolta da una declaratoria “secca” d’illegittimità (come già rilevato dalla stessa Corte). L’analisi di quest’ultimo arresto merita l’approfondimento di alcuni punti cruciali. L’ulteriore rinvio vale come proroga al Parlamento per deliberare, ancora una volta, “fuori tempo massimo”, e ne evidenzia il costoso affanno ad intervenire su un tema pur nervale per il rispetto dei diritti e delle garanzie, come il diritto dei condannati di scontare una pena legittima. Quest’attesa, infatti, è tutt’altro che innocua, perché protrae drammaticamente la condizione di detenzione illegale – come esplicitamente affermato dalla Corte nelle due ordinanze – in cui versano i condannati per uno dei delitti compresi nel catalogo dell’art. 4-bis; peraltro, l’attuale disciplina si pone in frizione anche con la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 13 maggio 2019 Viola contro Italia, nella quale i giudici di Strasburgo hanno scritto che «la scelta collaborativa non può rappresentare l’unico parametro per misurare il percorso di effettiva risocializzazione del condannato», in quanto un siffatto meccanismo viola l’art. 3 CEDU. Non si può prescindere, a questo punto, da una preliminare valutazione della disciplina riformatrice approvata dalla Camera, al fine di comprendere se essa rispetti «i rilievi» messi in luce dai giudici delle leggi nell’ord. n. 97 del 2021. Importanti giuristi hanno aspramente criticato la proposta di modifica, in particolare perché sembrerebbe introdurre «requisiti aggiuntivi che possono apparire superflui o poco chiari, o addirittura privi di vera giustificazione sostanziale» (G. Fiandaca) e perché eliminerebbe «tout court la collaborazione impossibile, irrilevante, inesigibile» (D. Galliani); se il Senato non modificherà questi profili critici, è probabile che nell’udienza di novembre la Corte Costituzionale debba dichiarare l’illegittimità del meccanismo ostativo e procedere autonomamente all’adeguamento della normativa alla disciplina costituzionale. Se così sarà, ad essere sacrificati saranno soltanto i diritti dei reclusi, costretti ad attendere più di un anno e mezzo il riconoscimento nominale di una illegalità già annunciata.