Una guida per provare a districarsi nel dedalo delle misure emanate al tempo della pandemia. Il ruolo del Parlamento, i DPCM, i decreti legge e la Costituzione che dovrebbe essere faro dell’emergenza.

A cura di Lorenzo Cameli e Francesco Matteo Bagnato

1.Genesi: 31 gennaio, la delibera del Consiglio dei Ministri

Dal 31 gennaio ci separa un giro di giorni che si sono fatti mesi.
In quella data, all’albeggiare dello “stato di emergenza globale” dichiarato dall’OMS , il ricovero di due turisti cinesi all’Ospedale Spallanzani di Roma ha sospinto il Consiglio dei ministri -su proposta del Presidente del Consiglio- a decretare lo “stato di emergenza” per la durata di sei mesi, fino al 31 luglio, in quanto “emergenza non fronteggiabile con mezzi e poteri ordinari”. Una dichiarazione talmente peregrina che, tempestivamente, sono volteggiate sull’atto ombre d’incostituzionalità, imputabili al mancato vaglio preventivo di legittimità della Corte dei Conti- generalmente valido per le decretazioni ministeriali. Infatti nel 2003, in occasione dell’epidemia di Sars, il Governo aveva scelto più semplicemente di derogare “per motivi sanitari” al Trattato di Shengen sulla libera circolazione, imponendo controlli sui passeggeri provenienti dalle aree di rischio e nominando contestualmente Guido Bertolaso come Commissario straordinario per l’emergenza. La deliberazione recente, invece, sfugge non solo alla conoscenza dei critici ma anche alla disciplina generale degli atti governativi, in favore di quella normativa ormai stratificata che è la l.225/1992(recante il titolo “Istituzione del Servizio Nazionale della Protezione Civile), confluita recentemente all’interno del Codice della Protezione civile (dlgs.1/2018) per cui “la delibera sullo stato d’emergenza è demandata al Consiglio dei Ministri, su proposta del Presidente del Consiglio(o di altre figure da lui delegate)”, e può essere emanata tanto al verificarsi quanto all’imminenza dell’emergenza, “per la durata massima di un anno, prorogabile una sola volta per un ulteriore anno”. Essa, inoltre, “dispone in ordine all’esercizio del potere di ordinanza, conferendo al CdM una competenza attributiva di tale potere” di cui non sono meglio precisati i possibili destinatari, eccettuato quello comunque riconosciuto al Capo della Protezione civile -salvo diverse disposizioni. Pertanto, la titolazione e il contenuto di tale legge chiariscono, da una parte, la funzionalità della previsione dello stato d’emergenza alla migliore operatività dell’organismo della Protezione Civile  e, dall’altra, la fallacità di quella diffusa accusa mediatica per cui “l’ordinamento italiano è totalmente scusso di una normativa dell’emergenza, in controtendenza agli altri ordinamenti europei”- in un secondo momento rimossa dai rispettivi siti giornalistici.

2. La Costituzione: faro dell’emergenza
Deve essere pacificamente rilevato, invece, un breve -ma decisivo- richiamo alla categoria dell’ “emergenza” nella nostra carta costituzionale. Non un’omissione, ma una scelta esatta dell’Assemblea Costituente (come ricordato dal giudice emerito della Corte costituzionale Sabino Cassese in un’intervista al Dubbio) verosimilmente memore del caustico fallimento che fu l’art.48 della Costituzione di Weimar che, consentendo vagamente al Presidente di “prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica”, favorì l’ascesa al potere dei nazisti prospiciente il Decreto dell’incendio del Reichstag nel 1933. La Costituzione italiana, d’altra parte, elabora soltanto “strumenti emergenziali” e non tanto un “periodo emergenziale” fatalmente generico e divaricato. Una decisione, questa dei Costituenti, capace di suscitare la delicatezza e la concreta ponderazione che ogni fase di stravagante necessità impone al potere concomitante, posto che ogni straordinarietà è ontologicamente incalcolabile ed imprevedibile, a tal punto da non poter essere predefinita ma gestita con gli strumenti prestabiliti. Pertanto, in deroga sia al principio di separazione dei poteri (art.70 cost.) sia alla corrispondente eccezione per cui, con lo strumento del decreto legislativo, il Governo “esercita la funzione legislativa su delega del Parlamento”(art.76 cost.), l’art.77 cost. recita che “in caso straordinario di necessità e di urgenza, il Governo può adottare sotto la sua responsabilità provvedimenti provvisori con forza di legge”, avvalendosi del cd. decreto legge. Uno strumento, questo, che però non evade il richiamo all’ordinarietà degli equilibri costituzionali, perché  non soltanto “i decreti perdono efficacia sin dall’inizio se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione”, ma ulteriormente -affinché il Parlamento sia restituito alla vocata centralità all’interno del dibattito politico nazionale- “il Governo deve, il giorno stesso, presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”. In questo modo, è chiaro che la Costituzione ha sì accolto quel “conatus sese conservandi”(Baruch Spinoza, Etica/Libro Quarto/IV) per cui un sistema fondato su previsioni e norme -qual è l’ordinamento- deve incorporare il suo contrario -che è l’imprevedibilità- per immunizzarlo e non rovinare su se stesso davanti alla straordinarietà del contingente, ma al contempo è stata capace di segnare un contraccolpo: ogni stravaganza deve volgere- nel limite del principio mutatis mutandis- alla conservazione dell’ordine pre-esistente, e non alla creazione di un nuovo ordine, alternativo e definitivo. Così, la decretazione d’urgenza non può mai farsi “normale tecnica di governo”, ed anche le più tempestive decisioni politiche devono essere, in un secondo momento, riassorbite nel democratico gorgo della dialettica parlamentare, utile ad esorcizzare che “nella notte più nera, tutte le vacche siano nere” (Hegel, Fenomenologia dello Spirito). 

3. Il reato di pericolo astratto e le ombre d’incostituzionalità: il primo decreto legge all’apertura della Fase 1
Non a caso, il tramestio di Palazzo Chigi nella notte tra il 20 e il 21 febbraio, alla notizia del primo tampone positivo nella città di Codogno, si è dedicato proprio ad un decreto legge, il primo dell’emergenza Covid-19: in pochi giorni, il 23 febbraio, il Governo ha adottato il dl.6/2020, dichiarando apertamente all’art.1 lo scopo d’introdurre “misure urgenti per evitare la diffusione del COVID-19” su base locale -e non ancora nazionale.
Così, all’aggravarsi del contesto epidemiologico nazionale, rapidamente s’infittivano anche le misure limitative di alcune libertà fondamentali(quali la libertà personale, di circolazione, d’iniziativa economica e le altre da queste precipitate) , scrupolosamente anticipate, confuse e indistinte da quelle raccomandazioni popolari innervate da un terrore prima superstizioso, poi mortalmente crudele e reale. Alla minaccia virale s’affiancava, inoltre, quella della sanzione penale, tentacolare e veglia nei crocevia delle città. Infatti, il decreto custodiva la scelta politica di presidiare le limitazioni disposte- che assumono tecnicamente il nome di “misure contenitive”, tra cui la cd. quarantena preventiva generale- con lo strumento della pena, grazie al richiamo quoad poneam (di rango sanzionatorio) all’art.650 cp., “salvo che il fatto non costituisse più grave reato”. Il reato previsto, pertanto, si prestava alla procedibilità d’ufficio, e le violazioni corrispondenti dovevano essere punite con l’arresto fino a 3 anni o, in alternativa, con l’ammenda fino a 206€. In più, in considerazione della natura contravvenzionale del reato-residuata appunto dal legame con l’art.650 c.p.- era accessibile, anche sulla base di ulteriori premesse, lo strumento dell’oblazione “discrezionale”, un particolare rito alternativo al giudizio penale che, su richiesta del contravventore, consente l’estinzione del reato con il pagamento di una somma prestabilita (ai sensi dell’art.162-bis cp). In questo modo, la tutela del bene giuridico della salute pubblica veniva affidata ad un reato di pericolo(e non di danno, in assenza di un’ effettiva lesione) astratto, poiché considerato dogmaticamente e non concretamente -caso per caso- espressivo di una sufficiente offensività; una fattispecie innovativa in ambito sanitario, solitamente custodito da fattispecie penali di pericolo concreto. E’ chiaro, qui, come l’operazione di bilanciamento tra le varie libertà -viziata dall’emergenza epidemiologica- sia stata signoreggiata dal diritto alla salute, a tal punto da ritenere eventualmente sacrificabile –attraverso l’armamentario penale- il diritto di libertà personale anche davanti a condotte quali il mero spostamento di un soggetto al di fuori dei casi di necessità prestabiliti e giustificativi- senza alcuna “circostanza di condotta” capace di specificare l’effettività del rischio di un contributo nocivo alla salute pubblica. Un segno epistemologico, questo, accolto poi anche nelle liturgiche ed untuose grida di molti balconi ad ignoti passanti, rei d’essere “criminali!”, con il loro vagolare misterioso e -secondo presunzione assoluta- indisciplinato.
Se si può concordare sulla necessità, in una straordinarietà sanitaria, sia di un comportamento proattivo da parte del Governo sia sulla contestuale antigiuridicità di certe condotte individuali potenzialmente impertinenti rispetto al bene giuridico della salute pubblica, allo stesso tempo molte critiche si sono svolte sull’opportunità di una scelta diversa -quale l’illecito amministrativo punitivo-, non priva di sufficiente coefficiente di effettività sulla società e comunque lontana dall’utilizzo suggestivo della strumentazione penale. Chiarita la pertinenza del decreto rispetto all’ambito penale, è doveroso procedere all’ulteriore e successiva contestazione per cui il Governo, sia nello stesso decreto sia negli atti successivi (Dpcm), abbia sostanzialmente eluso la riserva di legge in materia penale statuita all’art.25 co.2 Cost. Infatti, il dl. consentiva “alle autorità competenti” di adottare “ogni misura di contenimento adeguata e proporzionata all’evolversi dell’emergenza”, sia tra quelle espressamente elencate nel dl.- e per questo concorrenti alla categoria fisiologica dei cd. “atti nominati”-, sia tra quelle ulteriori, previste “ con dpcm al di fuori dei casi indicati”- e perciò “atti innominati”-, al risolutivo “fine di prevenire la diffusione della pandemia”. Pertanto, con una cd. “clausola in bianco”- ossia un’espressione vaga, arginata da bordature oltremodo pericolanti perché opache- veniva demandata l’introduzione di fattispecie di rilevanza penale- di statutaria delicatezza e, perciò, esclusive della competenza legislativa, secondo la Costituzione- ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, atti amministrativi che, in quanto secondari agli atti aventi forza di legge -dai quali devono essere sempre prescritti-, possono assumere soltanto una funzione ancillare, dunque specificativa ed attuativa, e non propriamente integrativa di un atto superiore, come nel caso di specie. In conclusione, un’esondazione impropria dell’atto ministeriale, che s’è ulteriormente spinta anche alla distensione dell’ efficacia territoriale delle misure indicata dal dl. Infatti, il premier Conte, con il dpcm in data 9 marzo, ha vertiginosamente applicato una torsione della formula “zona rossa”: se prima erano tali soltanto le aree o i comuni nei quali risultasse positiva una persona per la quale non si conoscesse la fonte di trasmissione, ora tutta l’Italia –con supinazione di qualsiasi richiamo fattuale- veniva avvinta dalle misure limitative. Rilievi patologici, questi, che il professor Gian Luigi Gatta in un suo articolo su Sistema Penale puntualmente elevava ad elementi d’incostituzionalità, tali da poter ragionevolmente indurre il giudice alla disapplicazione della formulazione penale -dunque all’assoluzione del soggetto- in riferimento alle ulteriori misure introdotte dai dpcm e/o nelle zone estranee a quelle indicate dal decreto legge.

4. Lo strumento dei dpcm e la marginalizzazione del Parlamento
Come appena suggerito, la decretazione d’urgenza -oltre alle ordinanze comunali e regionali- s’è intrecciata con quella decretazione ministeriale che, tra il primo decreto del 23 febbraio e il secondo risalente al 25 marzo- di cui presto si dirà-, ha inscenato un’insolita centralità.
Infatti, il ruolo liminare- dichiarato supra- dei dpcm si riflette anche nella corrispondente procedura d’adozione, che, contrariamente agli atti aventi forza di legge, non soltanto esclude i crismi propri della dialettica parlamentare e la verifica preventiva -all’atto di promulgazione- del Presidente della Repubblica, ma anche l’eventuale e successiva verifica di legittimità della Corte costituzionale. Così, il suo utilizzo- comunque giustificabile e legittimo nei limiti precedentemente indicati- è consistito sostanzialmente nell’estromissione della discussione parlamentare dal rilevante- e a tratti inappropriato- contenuto di cui erano depositari, in un momento la cui delicatezza doveva essere curata tanto dalla tempestività- che non coincide con la frenesia- di atti urgenti, quanto riconosciuta con strumenti- quali il decreto legge – che avrebbero potuto rassegnare la complessità della discussione delle libertà fondamentali a quel luogo vocativamente rappresentativo del pluralismo del paese: il Parlamento.
Infatti, la produzione ministeriale s’è addensata soprattutto (8, 9, 11 e 22 marzo)  subito dopo la conversione del primo decreto in legge (5 marzo), allontanandosi presto dal recente lavoro delle Camere e infuriando così il coro di quei politici che evocativamente – ma comunque malpropriamente- chiedevano l’accantonamento dell’ “extra omnes” e la “riapertura del Parlamento”, mentre i lavori parlamentari – in maniera limitata e non con il numero ordinario di sedute- in realtà proseguivano “seguendo tutte le precauzioni ritenute necessarie dalle autorità sanitarie”, come indicato dal Questore della Camera, il deputato di Forza Italia Gregorio Fontana.

5. Le correzioni del secondo decreto legge: tra depenalizzazione e retroattività dell’illecito amministrativo punitivo
Tuttavia, il dl. 19/2020 del 25 marzo ha saputo assorbire gran parte delle criticità elencate, testimoniando- insieme alla rarefazione dell’utilizzo dei dpcm, di cui uno soltanto cerimonialmente titolato “ulteriori misure per evitare la diffusione del virus”, in data 1 aprile-  l’attenzione del Governo alle problematiche sia insorte sia provocate. Tra le tante innovazioni, la dichiarata uniformità sull’intero territorio della base legale delle misure di contenimento e la tassatività delle stesse hanno sanato il vulnus della riserva di legge. A ristabilire la centralità del Parlamento, invece, la previsione dell’obbligatorietà per il Presidente  del Consiglio dei Ministri o un ministro da lui delegato “di riferire ogni 15 giorni alle Camere sulle misure adottate nel rispetto del presente decreto”. A tacer d’altro, in conclusione, il decreto esprime anche il chiaro congedo dall’opzione penale, escludendo espressamente l’applicabilità del reato previgente(cd. abolitio criminis) e prevedendo sia l’introduzione di un illecito amministrativo di carattere punitivo(evidente nell’oscillazione della sanzione da un minimo di 400 ad un massimo di 3000, irrogabile dal prefetto o dalle regioni a seconda della provenienza ministeriale o regionale della disposizione violata) per le condotte contrarie alle misure limitative adottate secondo nuovo decreto, sia l’efficacia retroattiva dell’opzione amministrativa sui fatti già penalmente denunciati-secondo una norma transitoria dedicata ai profili intertemporali-, ridotta, però, alla metà della misura minima- affinché, come indicato dalla Corte costituzionale nella sentenza 223/2018, la nuova sanzione non ecceda, in termini pecuniari, quella penale prevista dalla disciplina vigente al tempo del fatto; una riserva per cui, altrimenti, opererebbe il principio “tempus regit actum”. Quest’ultima accortezza, tuttavia, non è esente da dubbi d’incostituzionalità in rapporto ai principi di uguaglianza e di proporzione, dal momento che la medesima sanzione è comminata per violazioni di differente gravità. A una nuova figura di reato, invece, è affidata la prevenzione e la repressione dell’inosservanza di una sola tra le misure limitative disciplinate dal decreto-legge, ritenuta meritevole di un regime sanzionatorio differenziato e ben più severo. Si tratta del reato contravvenzionale- di pericolo per la salute pubblica, astratto ma fondato su una presunzione ragionevole e sorretta da evidenze scientifiche ben note- legato alla “violazione del divieto assoluto di allontanamento dalla propria abitazione” per chi “è stato specificamente sottoposto alla misura della quarantena poiché positivo al virus”, da cui la congiunzione delle pene dell’arresto da 3 a 18 mesi e l’ammenda da 500 a 5000 euro- con esclusione, pertanto, della possibilità dell’oblazione.
Tuttavia, il decreto non arricchisce questa forma di quarantena di una specificazione- necessaria secondo la lettura dell’art. 13 cost.- di tempi, modi e procedura corrispondenti, tal punto che il giudice potrebbe, eventualmente, contestare la sua legittimità laddove il Parlamento, in sede di conversione, non s’adoperasse in senso contrario e medicamentoso.
La nuova contravvenzione, inoltre,  trova applicazione “salvo che il fatto integri un delitto colposo contro la salute pubblica (art. 452 c.p.) “ -tra cui il delitto di epidemia colposa, per chi “diffonde colposamente il virus o con la sua condotta negligente ne favorisce la propagazione causando la morte di persone innocenti”- “o comunque un più grave reato”.

6. Riflessioni sulla Fase 2
La Sars-Covid 19 ha dimostrato di essere immune a qualsiasi tipo di confine o frontiera, diffondendosi in gran parte del globo. Ognuna delle dimensioni ordinamentali afflitte ha dovuto affrontare una realtà emergenziale peregrina, procedendo con graduale e difficoltosa presa di coscienza verso la fatale scelta di un periodo di modulata o totale chiusura(il cd. lockdown).A questo punto, la considerazione che non può essere sottaciuta è quella per cui sarà necessario imparare a convivere con il virus, emancipandoci gradualmente dall’immobilità sociale e produttiva finora attuata: questa è la consistenza dell’ormai nota “Fase 2”, la seconda delle diverse fasi che cadenzano il piano di ripartenza programmato dal Governo con l’ausilio dei Comitati scientifici. In questo ciclo sono tre, al momento, le date da segnare sul calendario degli italiani, suscettibili di modifiche in base all’andamento della curva dei contagi. Alla data del 4 maggio, un primo allentamento coinvolgerà i divieti di spostamento. Questi ultimi, infatti, torneranno legittimi al di fuori del comune di residenza, pur rimanendo entro i confini regionali e sulla base dell’autocertificazione per ricongiungersi con parenti o congiunti, come per il rientro al domicilio, residenza o abitazione. Sempre al decorso di questa data, sarà consentita l’attività motoria al di fuori dei pressi della propria abitazione, pur mantenendo la distanza di due metri dagli altri podisti. I bar e i ristoranti -la cui consumazione in loco continuerà ad essere interdetta- potranno ora non solo continuare con l’attività di consegna a domicilio, ma aderire anche all’opzione dell’asporto, pur evitando in ogni modo l’assembramento  al di fuori del locale, motivo per cui bisognerà procedere su prenotazione, anche online. Per il 18 maggio è prevista, invece, la ripresa della vendita al dettaglio di abbigliamento, calzature e la riapertura di tutti i negozi fisici finora chiusi, sia pur con le restrizioni dovute al distanziamento e ai dispositivi di protezione. La data che segnalerà la piena conclusione della “Prima fase” dovrebbe essere, infine, quella dell’1 giugno: potrebbero ripartire le attività più difficili da mantenere in sicurezza, ossia i bar e i ristornati. Metro dal bancone, due metri tra un tavolo e l’altro, mascherine e guanti per i camerieri: queste le regole sulle quali non verrebbero ammesse eccezioni.

7. Il punto sull’App Immuni
Stando alle informazioni circolate finora e al netto delle recenti novità in merito al tentennamento del governo e ad eventuali ripensamenti, la nuova fase sarà verosimilmente caratterizzata da un metodo di tracciamento digitalizzato, di chiara ispirazione- ma non emulazione- al modello sudcoreano. Si vuole far riferimento ad “Immuni”, l’applicazione sviluppata dall’italiana “Bending Spoons” per iOS e Android, e prescelta dal Governo per garantire il monitoraggio dei soggetti risultati positivi al virus. Analizzando le caratteristiche strutturali, l’app sarà composta in due parti: una dedicata al tracciamento dei contatti (contact tracing) attraverso tecnologia Bluetooth, e l’altra ad una sorta di “diario clinico” dell’utente. Tutto ciò permetterebbe sia ai soggetti contagiati di  “auto-segnalarsi”, sia che la trasmissione dei dati venga cifrata e firmata digitalmente, garantendo la massima sicurezza e riservatezza come in accordo con il ministero dell’innovazione. In particolare, i dispositivi procederanno a scambiarsi il proprio identificativo anonimo generato localmente con crittografia, quindi una lista di numeri –anche questi privi di qualsiasi elemento identificativo della persona con la quale si è entrati in contatto digitale. Il tutto, perfettamente in linea con le linee guida emanate dalla stessa Commissione europea lo scorso 8 di aprile sul contact tracing, nelle quali è stata rimarcata la scelta tecnologica di utilizzare soluzioni basate su Bluetooth- e non GPS, come invece nella versione asiatica, forte anche dell’utilizzo incrociato di telecamere di sorveglianza. Ciò perché mentre con il primo è possibile tracciare un contatto a prescindere da dove questo sia avvenuto, con la seconda tecnologia invece è altresì possibile qualificare il soggetto con il quale si è entrati in contatto. Una soluzione, quest’ultima, certamente più invasiva e poco aderente alla tutela del diritto alla riservatezza degli utenti. Per questa ragione, nell’ordinanza firmata il 16 di aprile  dal Commissario Straordinario Arcuri, si è voluto fare esplicito riferimento al fatto che Bending Spoons sia stato scelto perché, dopo un’iniziale propensione ad una tecnologia mista, ha deciso di eliminare l’opzione del GPS nel progetto. Il ministero della Salute, inoltre, ha già escluso qualsiasi forma d’ imposizione dell’utilizzo dell’app. Si tratta di un’ulteriore precisazione di non poco conto, che esclude ed allontana tutte le preoccupazioni relative ad una possibile menomazione della libera scelta dei cittadini di sottoporre i propri spostamenti ad un continuo controllo. Per quanto riguarda, infine, la data di lancio dei dispositivi, le ultime indiscrezioni suggeriscono la fine di maggio.  La speranza, ora, è che non soltanto sia implementato l’impegno del “Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione” nel rendere il codice dell’applicazione “open source”, quindi studiabile ed utilizzabile da chiunque ne abbia interesse -tra cui altri governi-, ma anche che la totalità della discussione sia approfondita e decisa naturaliter dall’organo rappresentativo del paese: il Parlamento.

FONTI:

https://www.who.int/news-room/detail/30-01-2020-statement-on-the-second-meeting-of-the-international-health-regulations-(2005)-emergency-committee-regarding-the-outbreak-of-novel-coronavirus-(2019-ncov)

http://www.governo.it/it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-27/13937

https://www.ildubbio.news/2020/04/14/cassese-la-pandemia-non-e-una-guerra-pieni-poteri-al-governo-sono-illegittimi/

https://www.sistemapenale.it/it/opinioni/coronavisus-covid-19-diritti-liberta-fondamentali-diritto-penale-legalita

https://www.agi.it/politica/news/2020-03-22/parlamento-aperto-coronavirus-covid-19-7745557/

https://www.agi.it/politica/news/2020-03-19/coronavirus-convocazione-parlamento-7638121/)