Per una curiosa coincidenza, Ruth Bader Ginsburg è morta in un anno elettorale, come avvenne, quattro anni fa, ad Antonin Scalia. Come fu per quest’ultimo, la sua morte è immediatamente diventata un argomento centrale della campagna elettorale, e a ragione: quattro anni fa, era in gioco la possibilità per Obama di mutare l’orientamento culturale di fondo della Corte suprema; adesso, per Trump, c’è la possibilità di consolidare quello attualmente prevalente. 

Ginsburg e Scalia sono stati, negli ultimi decenni, gli esponenti più riconoscibili di orientamenti giurisprudenziali non solo lontani, ma per molti versi addirittura contrapposti o incociliabili: eppure, i due erano migliori amici. La loro amicizia era sorprendente per chi ritiene che in “politica” (da intendersi nel senso più ampio di vicende relative alla polis) possano esistere solo “amici”, se si condivide la medesima visione del mondo, e “nemici”, se invece accade il contrario. E tale era la sorpresa, che una volta fu davvero chiesto a Scalia: ma come fa a essere amico della Ginsburg? E questi, senza scomporsi, rispose: «I attack ideas. I don’t attack people. Some very good people have some very bad ideas – and if you can’t separate the two, you gotta get another day job».

L’amicizia tra Ginsburg e Scalia era certamente cementata da comuni passioni e interessi (su tutti, il loro amore per l’opera). Tuttavia, perché un legame così sincero abbia potuto non solo sopravvivere, ma addirittura prosperare, nonostante le difficoltà quotidiane del loro lavoro, è stato certamente necessario qualcosa di più profondo di un abbonamento a teatro o di qualche vacanza estiva. C’è stato, innanzitutto, il senso di appartenenza a un’impresa condivisa: interpretare e applicare la stessa Costituzione e le stesse leggi. C’è stato, ancora, una comune coscienza di sé e del proprio mestiere, quali giudici impegnati nell’individuare il senso normativo e precettivo di testi scritti da altri – dai rappresentanti democraticamente eletti. C’è stata, peraltro, la consapevolezza che nel diritto si deve assolvere a un onere argomentativo, promuovendo le proprie soluzioni in un contesto di coerenza sistematica con alcuni principi fondamentali: sicché i dissensi e i contrasti devono essere sempre mediati dalla percezione di muoversi nello stesso perimetro culturale. C’è stata, soprattutto, la medesima disponibilità a riconoscere che chi ha idee diverse dalle proprie le ha in buona fede e per ciò esse meritano di essere tenute in adeguata considerazione. Questo non vuol dire che la loro amicizia abbia fatto velo alla loro onestà intellettuale: quando si trovavano su fronti opposti (e capitava spesso), nessuno dei due si esimeva dal redigere o sottoscrivere una opinion tutta volta a demolire le argomentazioni dell’altro. Solo per fare un paio di esempi, Scalia dissentì (unico a farlo) dalla pronuncia di cui Ginsburg andava probabilmente più fiera, United States  v. Virginia; e la Ginsburg fece lo stesso con quella che Scalia riteneva essere tra le sue più importanti sentenze, District of Columbia v. Heller

Jeffrey Sutton, nell’appena pubblicato The Essential Scalia, racconta che durante una delle ultime visite a Scalia, fu sorpreso dal vedere sul tavolo del suo ufficio due dozzine di rose rosse, che questi aveva preparato come regalo di compleanno per la Ginsburg. Sutton decise di stuzzicare Scalia, chiedendogli di quale utilità gli fosse stata quell’amicizia, in quale caso finito 5 a 4, ad esempio, gli fosse servita per vincere il voto della Ginsburg. «Some things» rispose Scalia «are more important than votes». Il fatto che esistono “cose” più importanti dei “voti” o che si attaccano le idee e non le persone è una lezione di civiltà e umanità che dovremmo tenere sempre in altissima considerazione. Non è ovviamente facile metterla in pratica, specie in tempi di esasperata polarizzazione, e forse non lo è mai stato (tra gli anni ’40 e ’50, otto giudici su nove della Corte suprema erano stati nominati dallo stesso Presidente, Franklin Delano Roosevelt: eppure, gli otto erano arrivati a odiarsi così profondamente da mettere a rischio il funzionamento dell’istituzione). Ma la difficoltà non autorizza ad arrendersi. Per noi giuristi, significa innanzitutto ricordare che – per citare il tributo post mortem che la Ginsburg riservò a Scalia –  «“We are different, we are one”: different in our interpretation of written texts, one in our reverence for the Constitution and the institution we serve».