Nel 2012 l’Apple Daily intervistava “normalmente” Carrie Lam, l’attuale Chief Executive di Hong Kong, che allora era segretario per lo sviluppo. Dal 23 giugno 2021, il link di questa intervista non è più accessibile, così come tutti i contenuti web e dell’app della testata. Tanto viene comunicato tramite un messaggio sul sito dell’Apple Daily, ringraziando tutti gli abbonati, i lettori e gli hongkonghesi per il fedele supporto: “Good luck, and goodbye”. Il principale giornale pro-democrazia di Hong Kong è stato fondato nel 1995 da un personaggio stupefacente e rappresentativo quale Jimmy Lai, che, arrivato ad Hong Kong a 12 anni nascosto nello scafo di una barca, è divenuto un uomo d’affari, conoscente personale di Milton Friedman, attivista per la democrazia ed è stato vera e propria “nemesi” di Pechino. Il giornale ha chiuso dopo un’imponente retata nella sua sede, a cui sono seguiti l’arresto di diversi quadri (accusati di collusione con forze straniere, secondo l’articolo 29 della legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong) e il congelamento di tutte le finanze del giornale.
La legge sulla sicurezza nazionale di Hong Kong era stata promulgata approssimativamente un anno prima, il 30 giugno del 2020: evento da molti considerato, a ragione, la fine di Hong Kong e del suo sistema liberale, per come era stato conosciuto fino ad allora. Durante la conferenza stampa, un giorno prima della chiusura dell’Apple Daily, uno dei reporter politici del quotidiano si è rivolto a Carrie Lam dicendo: “Lei aveva sostenuto che la legge sulla sicurezza nazionale avrebbe riguardato solo un piccolo gruppo di persone, ma ora oltre 800 persone nella mia compagnia saranno costrette a lasciare il proprio lavoro. Signora Lam, può dare una risposta?”. Il Capo dell’Esecutivo, tuttavia, se ne è andata senza replicare né guardare il reporter. Sebbene il declino delle libertà ad Hong Kong stia subendo da anni un inquietante crescendo, con l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale vi è stata una considerevole accelerazione dell’erosione di diritti e libertà. Nonostante sin dal luglio del 2020 Carrie Lam avesse assicurato che la legge sulla sicurezza nazionale non avrebbe leso la libertà di stampa, già dallo stesso mese il New York Times decideva di trasferire gran parte del suo staff di stanza da Hong Kong a Seoul. Allo stesso modo, tutti i corrispondenti stranieri hanno iniziato a segnalare difficoltà piuttosto “inusuali” nell’ottenere il visto. Poi, l’accanimento contro il principale quotidiano pro-democrazia di Hong Kong, iniziato nell’agosto del 2020 con l’arresto di Jimmy Lai e una retata di 100 poliziotti nella sede del giornale. Nel novembre del 2020 veniva fatto un raid anche nell’ufficio privato dello stesso Jimmy Lai, ed ancora, nel gennaio del 2021, l’Apple Daily continuava a subire intromissioni e perquisizioni da parte della polizia. Infine, appena pochi giorni fa, nel mese di giugno, un raid di 500 poliziotti ha coinvolto la sede dell’Apple Daily, durante il quale sono stati arrestati 5 fra i principali dirigenti del tabloid, con l’accusa – sempre secondo la legge sulla sicurezza nazionale – di aver complottato con potenze straniere al fine di sollecitare l’imposizione di sanzioni su Hong Kong (a due di questi, Cheung Kim-Hung, CEO di Next Digital, compagnia che detiene l’Apple Daily, e Ryan Law, Editor in chief dell’Apple Daily, il tribunale ha negato il rilascio su cauzione). Per finire, il suddetto congelamento delle finanze dell’Apple Daily ha impedito al giornale di pagare i propri dipendenti e finanziare la distribuzione del quotidiano, costringendolo, dunque, a chiudere. L’ultimo numero risale al 24 giugno, giorno in cui tantissimi cittadini di Hong Kong si sono apprestati ad acquistare il giornale anche alle due del mattino, sotto la pioggia. Inoltre, il 27 giugno scorso, un altro giornalista è stato fermato ed arresto all’aeroporto di Hong Kong, sospettato di voler “fuggire” nel Regno Unito; con lui, salgono a 7 i principali dirigenti dell’Apple Daily arrestati per presunta collusione con paesi stranieri. Oltretutto, è stato anche reso noto che la Polizia della sicurezza nazionale è in possesso di una lista di persone che, qualora dovessero tentare di lasciare l’isola, sarebbero arrestate.
Esattamente un giorno dopo la chiusura dell’Apple Daily, Carrie Lam ha annunciato un rimpasto del proprio gabinetto, inserendovi due ex-agenti di polizia: John Lee e Chris Tang, entrambi oggetto di sanzioni da parte dell’amministrazione Trump. Chris Tang era stato Capo della polizia durante le violente repressioni delle proteste nel 2019. A fronte di questo rimpasto (avvenuto anche per le pressioni di Pechino), molti hanno denunciato la finale trasformazione di Hong Kong in uno Stato di polizia. Tuttavia, tali argomentazioni sembrano non scalfire i sostenitori della maggioranza pro-Pechino: una deputata del predetto gruppo, Alice Wang, ha affermato di non trovare nulla di male nella definizione “Stato di polizia”, perché indicherebbe solamente una maggiore enfasi sulla sicurezza. I due nuovi membri di gabinetto, oltre ad assicurare con toni altisonanti il proprio impegno per mantenere l’ordine e la disciplina, contrastando il terrorismo e le influenze straniere, hanno dichiarato che i giornalisti arrestati erano dei criminali e hanno ribadito il proprio impegno a far sì che Hong Kong sia governata da “patrioti”. Se nel 2002 il rapporto di Reporter senza frontiere posizionava Hong Kong al diciottesimo posto al mondo per libertà di stampa, quest’anno la provincia autonoma si trova all’ottantesimo posto. Tale dato esemplifica, in modo terribilmente netto, il tramonto di una democrazia e di uno Stato liberale. Ovviamente, non sarebbe corretto attribuire l’inquietante crepuscolo della libertà su Hong Kong esclusivamente alla nuova legge sulla sicurezza nazionale del 2020: infatti, il processo è stato “azionato” dalla Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1985, firmata da Margaret Thatcher e Deng Xiaoping, e poi dall’Handover del 1997. Tuttavia, la spietata accelerazione (anche in violazione della stessa Dichiarazione, come sostiene il Regno Unito) con cui è avvenuta la presa di Pechino su Hong Kong, a partire dalle proteste del 2019, sconvolge e atterrisce anche il resto del mondo, non tanto perché – come è stato detto – Hong Kong ha i “mezzi” per apparire sui media occidentali, ma perché la rapidissima trasmutazione di un regime comunque liberale in uno Stato autoritario (o, come direbbero i patrioti che governano l’isola, uno Stato di polizia) indica in modo franco e sfrontato, da una parte, la potenziale fralezza della nostra libertà, dall’altra, i punti “nevralgici” per la vita di uno stato liberale e democratico (tra questi, il sistema giudiziario e una stampa libera). Agli inizi del 2000, seppur con l’ombra di Pechino sempre presente e con un sistema di elezioni certamente imperfetto, un cittadino di Hong Kong godeva di libertà approssimativamente molto simili a quelle di un occidentale. Tuttavia, all’epilogo del progressivo deterioramento, con la legge sulla sicurezza nazionale del 2020 è arrivata quella che molti hanno chiamato la fine del “One country, two systems”. Ciò che a molti abitanti del mondo libero può apparire come un lontano incubo, una fantasia dispotica, si è avverato integralmente per i cittadini di Hong Kong, i quali hanno visto il regime di Pechino insidiarsi e ribaltare il loro sistema giudiziario, la stampa della città, la libertà accademica e, in ultimo, le loro stesse vite. Per tale motivo, dalla nostra parte del mondo, dovremmo guardare con angoscioso accoramento lo sgomento degli hongkonghesi. La legge sulla sicurezza nazionale, oltre ad introdurre nuovi reati (per categorie estremamente vaghe come secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere, prevedendo l’ergastolo come pena massima) e a consentire, per essi, processi chiusi senza giuria, richiede alle autorità una maggiore sorveglianza e regolamentazione su scuole, università, organizzazioni sociali, media e internet. Durante l’ultimo anno, si è cercato di favorire quella che viene chiamata da Pechino un’“educazione patriottica”, ed anche nelle università sono state segnalate simili restrizioni e tendenze; all’Università di Hong Kong è stato richiesto di evitare “la discussione di argomenti divisivi”, con l’avvertimento che vi sarebbe stata “tolleranza zero” su opinioni politiche e personali espresse in classe.
Il New York Times, in un articolo del 29 giugno, descrive come la “frontiera” tra la Cina ed Hong Kong vada svanendo ogni giorno di più, e come Pechino stia tentando di praticare sulla società di Hong Kong un vero e proprio “brainwashing”. Oltre che di una pesante propaganda sui bambini in età scolare, il New York Times parla anche dell’implementazione di un sistema di delazione nei confronti dei violatori della legge sulla sicurezza nazionale: a novembre, la polizia ha aperto una “hotline” dove è possibile segnalare ipotetiche violazioni della legge e, di recente, le autorità si sono congratulate per il grande numero di segnalazioni ricevute. Nondimeno, ciò che la Cina racconta è “una storia di ordine e stabilità naturalmente ritrovati”; una delle principali emittenti internazionali cinesi, la CGTN, ha voluto beffare le denunce della “fine di Hong Kong” per mano della legge sulla sicurezza nazionale pubblicando un video in cui si spiegava che la predetta legge ha segnato, al contrario, un nuovo inizio. In tale filmato, si sostiene limpidamente che né la libertà, né l’autonomia di Hong Kong possono rappresentare una “barriera” alla salvaguardia dell’integrità nazionale e della sicurezza. L’Apple Daily, come racconta l’Hong Kong Free Press, è stato il primo giornale completamente a colori pubblicato nell’isola: era un giornale atipico, “chiassoso”, forse anche pacchiano e a volte criticato per lo stile troppo sensazionalista. Nelle sue prime uscite, assieme al cartaceo veniva offerta all’acquirente una mela: “una mela al giorno toglie il bugiardo di torno” divenne il suo slogan; mirava ad essere un giornale popolare, modellato sullo stile del USA Today. Tuttavia, nella popolarità, oltre alla sua presunta volgarità o superficialità, l’anticomunismo di Jimmy Lai e (di conseguenza) di tutta la linea editoriale ha giocato una grandissima parte. Si può forse affermare che Pechino temeva che il successo di questo giornale mettesse in dubbio il proprio racconto, per cui la democrazia sarebbe culturalmente estranea alla Cina e ad Hong Kong – non a caso, a gennaio, il giornale di Hong Kong pro-Pechino, Ta Kung Pao, aveva pubblicato un articolo in cui si sosteneva che Hong Kong avrebbe dovuto lasciare alle proprie spalle il “mito della democrazia occidentale” –, e che nel dissenso verso il regime politico di Pechino fosse possibile leggere l’espressione di una presuntuosa volontà di prevaricazione culturale da parte dell’Occidente. In un’intervista del 2017 al Telegraph, l’ultimo governatore britannico di Hong Kong, Chris Patten, ricordava come durante una visita ad un ospedale psichiatrico di Hong Kong, poco prima dell’Handover, si era sentito chiamare da uno dei pazienti, che voleva porgli una domanda. Incuriosito da quest’uomo, che pur trovandosi in un ospedale psichiatrico era vestito in modo elegante e aveva avuto la sfacciataggine di voler parlare con il governatore, gli si era avvicinato. “Governatore”, questo gli aveva chiesto, “la Gran Bretagna dice di essere la più antica democrazia al mondo”. “Tanto viene a volte sostenuto”, aveva replicato il Governatore. E l’uomo aveva continuato: “e la Cina è l’ultima grande potenza comunista al mondo, una potenza autoritaria”. “Sì”, gli aveva risposto Patten. “Allora, mi potrebbe spiegare per quale motivo la Gran Bretagna, la democrazia, sta cedendo Hong Kong a uno stato autoritario senza consultare il popolo di Hong Kong, senza dargli nessuna scelta?”. Patten ricorda che, una volta salito in macchina alla conclusione della visita, uno dei suoi dei suoi ufficiali commentò: “Non è straordinario come l’uomo con la domanda più sensata ad Hong Kong si trovi in un ospedale psichiatrico?”. La storia dell’Apple Daily è esemplificativa del ruolo essenziale che la stampa e il sistema giudiziario ricoprono nel mantenerne la libertà e lo Stato di diritto; ci rammenta la fragilità delle istituzioni democratiche e che, per quanto si voglia credere alla narrazione di Pechino, la democrazia e il liberalismo non sono solo “cosa nostra”, bensì ideali universali, propri di tutti gli uomini che si appellano alla ragione umana. Pertanto, ciò che sta accadendo ad Hong Kong, oltre ad essere lo straziante requiem di uno Stato liberale, rappresenta un attacco alla democrazia e al liberalismo in sé, e in quanto tale coinvolge tutto il mondo. Un articolo dell’ultima copia dell’Apple Daily, intitolato “Apple’s final chapter after 26 years of fighting the good fight”, ripercorrendo tutta la storia del tabloid, concludeva lasciando un messaggio di buon auspicio: l’invito al lettore a credere che è proprio poco prima dell’alba che tutto è più scuro.
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