Oggi è stata approvata una nuova legge sulla sicurezza nazionale imposta ad Hong Kong da Pechino. Con l’esasperarsi delle leggi di emergenza e della moltiplicazione neoplastica del diritto penale anche in Occidente, vedere il chiaro danno di un provvedimento simile risulta forse più difficile, soprattutto quando si tenta di nebulizzarlo come una normale e necessaria legge sulla sicurezza. Si tratta, in realtà, di un provvedimento formalmente adottato per controllare e placare gli scontri, ma sostanzialmente ideato per reprimere la libertà dei cittadini Hong Kong attraverso l’intervento penale e l’incarcerazione dei dissidenti. Ecco perché l’attacco all’ex colonia britannica è anche e soprattutto un attacco allo Stato di Diritto.

Il primo luglio ricorre il ventitreesimo anniversario dell’ “Handover” di Hong Kong dal Regno Unito alla Cina, e pare che il regime comunista abbia voluto approvare la nuova legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong proprio in occasione di questa ricorrenza. Dopo una sessione di tre giorni, infatti, martedì 30 giugno a Pechino il comitato permanente dell’Assemblea nazionale del popolo ha votato il testo della legge e ad essa, tra l’altro, sarà riservato il potere d’interpretazione finale dello stesso provvedimento. La polizia ha proibito – sempre con la scusa dei motivi sanitari, come già successo di recente per la veglia per le vittime di Tiananmen del 4 giugno – anche l’annuale marcia del primo luglio, organizzata per chiedere maggiore democrazia, la protezione della libertà di pensiero e di parola e altri diritti fondamentali, col fine di evitare il replicarsi della protesta che, nella stessa data del 2003, portò 500.000 persone in strada contro una legge sulla sicurezza che il LegCo di Hong Kong stava discutendo. In questi giorni, dunque, la minaccia cinese si sta facendo sempre più pressante su Hong Kong e, con l’aumentare della tensione, ci sono state diverse manifestazioni e numerosi arresti. Le proteste ad Hong Kong sono iniziate più o meno un anno fa, contro una proposta di legge che avrebbe permesso l’estradizione in Cina. È bene notare che entrambe le leggi citate- per mezzo delle quali la Cina (e Carrie Lam) ha tentato e tenta di corrompere lo Stato di diritto di Hong Kong- incidono sul sistema giudiziario e sul sistema penale della città. Difatti, tra le prime proteste di giugno 2019 vi sono state proprio due marce degli avvocati di Hong Kong: tra gli organizzatori e i maggiori “attivisti”, anche Martin Lee, avvocato e giurista talvolta riconosciuto come il “padre” della Basic Law, e l’avvocato e deputato Dennis Kwok, attualmente personalità simbolo del liberalismo e della “rule of law”. La nuova legge sulla sicurezza ha come obiettivo, in particolare, quattro nuovi “comportamenti criminali”: separatismo, sovversione, terrorismo ed interferenze straniere. Si tratta dunque dell’introduzione di nuove fattispecie specifiche, alcune delle quali accompagnate dalla previsione dell’ergastolo. Inoltre, tale riforma legislativa permetterà a Pechino di stabilire sul territorio di Hong Kong un’agenzia permanente di controllo sulla sicurezza nazionale. Non solo, perché viene attribuito al Chief Executive di Hong Kong il potere di scegliere i giudici competenti dei casi riguardanti la “national security”, in palese violazione del principio della separazione dei poteri.

Pertanto, la breccia attraverso cui il regime comunista cinese si sta facendo largo nel regime liberale di Hong Kong è proprio il controllo del sistema giudiziario e penale. Il potere giudiziario è lo strumento più potente ed incisivo che lo Stato possiede in termini di controllo della libertà dei cittadini. Per questo motivo, l’imparzialità del suo esercizio e l’indipendenza della magistratura sono il cardine su cui si basa uno Stato liberale e di diritto, perché “conditiones sine quibus non” di tutte le libertà. Tale gravità sembra essere evidente sia agli avvocati di Hong Kong, che per primi si sono mobilitati, sia ai manifestanti tutti. Che la magistratura indipendente (e il diritto a un giusto processo) sia la condizione primaria del liberalismo è ben chiaro anche a Xi Jinping: in un articolo pubblicato sul Qiushi journal, il presidente cinese sottolineava come la Cina non dovrà mai adottare il “costituzionalismo”, la separazione dei poteri o tantomeno un sistema giudiziario che preveda una magistratura autonoma e indipendente. Per Xi Jinping, la Cina deve pensare a perfezionare un “team” legale “socialista” che sia fedele al partito e non ne minacci l’unità. Emerge senza ambiguità, pertanto, che non si tratta di una banale questione di “sicurezza”, ma di una fondamentale battaglia di civiltà e di sistemi politici.

La “svolta penale” prima citata, infatti, permette e prepara anche un controllo maggiore e capillare della società e dei comportamenti individuali. Con ciò, se il potere giudiziario è il potere dello Stato di primaria importanza per la salvaguardia delle libertà e dei diritti dei cittadini, quello tentato da Pechino è un vero e proprio golpe, che permetterebbe l’ “invasione”, lo “spill over”, il contagio da parte degli elementi totalitari di Pechino nel corpo liberale del sistema di Hong Kong. Un golpe, tuttavia, più subdolo e meno visibile di quanto risulterebbe uno “ufficiale”. Con l’esasperarsi delle leggi di emergenza e della moltiplicazione neoplastica del diritto penale anche in Occidente, vedere il chiaro danno di un provvedimento simile risulta forse più difficile, soprattutto quando si tenta di nebulizzarlo come una normale e necessaria legge sulla sicurezza. Le proteste dell’ultimo anno ad Hong Kong sono state anche caratterizzate da una crescente violenza della polizia, che, come spesso denunciato, è generalmente rimasta impunita. Un esecutivo che con connivenza ignora la violenza della polizia è, di nuovo, un segnale, un preludio alla violenza giudiziaria, violenza che ora si propone di ufficializzare tramite la nuova legge: esso è un modo sostanzialmente “illegale” per iniziare, anche prima dell’approvazione della legge, a perseguire gli obiettivi di tale disciplina, quindi gli obiettivi di Pechino. Il rapporto privilegiato che i totalitarismi hanno con il “diritto penale totale”, con la violazione delle loro stesse leggi e con la violenza della polizia silentemente accettata ed incoraggiata (anche fuori dal proprio quadro legale), è un costante ed essenziale rapporto simbiotico. E se tale rapporto simbiotico è vero, è vero anche quello che esiste tra lo Stato liberale e il diritto ad un giusto processo, l’ indipendenza della magistratura e la proporzionalità del diritto penale. Sciascia in “Porte aperte” notava, a proposito, come Matteotti fosse professore di diritto penale e “che Matteotti era stato considerato tra gli oppositori del fascismo il più implacabile non perché parlava in nome del socialismo… ma perché parlava in nome del diritto. Del diritto penale”