“Ma si è mai posto, lei, il problema del giudicare?” “Sempre” “E l’ha risolto?” “No”. Leonardo Sciascia nasceva 100 anni fa, l’8 gennaio 1921, a Racalmuto. Nasceva nel paese di Diego La Matina, personaggio di cui racconta la storia nel suo saggio “La morte dell’inquisitore”. Egli stesso sosteneva che “le coincidenze sono le uniche cose sicure nella vita”, e, dunque, Sciascia è legato, in qualche modo, sin dalla nascita (o sin da prima della nascita) all’inquisizione, istituto che è una costante presenza nelle opere dello scrittore siciliano, in quanto paradigma del problema della giustizia e del giudicare in tutte le sue sfaccettature. Nell’inquisizione, infatti, Sciascia vedeva un archetipo perpetuo dell’amministrazione della giustizia come potere (e religione, in un certo senso) e non come diritto. “Mi sono interessato all’inquisizione poiché questa è lungi dal non esistere più nel mondo”. Il problema del “giudicare”, come viene richiamato nel dialogo tra Riches e Rogas ne “Il Contesto”, potrebbe forse essere definito la tormentosa questione essenziale dell’opera di Sciascia, che lo rese un intellettuale “impegnato”, come fu riduttivamente e grossolanamente definito; “impegnato con me stesso e gli altri me stesso” disse lui. Il problema della giustizia è anche quello che ha fatto di Sciascia uno scrittore “politico” nel senso forse più profondo e intimo del termine. “Uno scrittore dovrebbe sempre poter dire che la politica di cui si occupa è etica” commentava a un’affermazione di Borges. E infatti, per lo scrittore siciliano la questione della giustizia era politica, etica e molto di più: tutto era per lui legato al problema della giustizia, poiché è una questione che “involge quella della libertà e della dignità umana”, un quesito che, sondando, illumina i dilemmi posti nei più oscuri anfratti dell’animo e della società umana. In un articolo del Corriere della sera del 1983, Sciascia spiega come il giudice è per mestiere condannato a “punire la violenza con la violenza” e, per tale motivo, i magistrati hanno sovente bisogno di sentirsi sicuri, confortati dall’assenza del dubbio e della critica riguardo al loro operato. Dalla rimozione di questo peso dilaniante nasce un corporativismo della magistratura, la necessità di “giustificare” (se non di negare) gli errori giudiziari, di “contestualizzarli”. I tribunali diventano are, il dubbio viene esorcizzato, la magistratura prende la forma di una setta. Per sopire la preoccupazione dell’errore, allora, i giudici tentano di eludere l’opinione esterna, rendendo la giustizia un rito imperscrutabile. La più limpida, la più terrifica descrizione che Sciascia ha fatto di questo atteggiamento della magistratura è nel già citato “Il Contesto”, e specificatamente durante il confronto tra Riches e Rogas. Il presidente della Corte Suprema, Riches, sostiene di aver risolto il problema del giudicare. Egli spiega il rito giudiziario come un rito religioso, una transustanziazione. Il processo può essere spiegato solo con la fede. E come nel rito religioso non può accadere che la transustanziazione non avvenga, nel rito giudiziario non può accadere che “la giustizia” non venga celebrata e rivelata. “E io posso dire: nessuna sentenza mi ha sanguinato tra le mani, ha macchiato la mia toga…”. L’errore giudiziario non esiste, questa la tesi di Riches. Quindi, giustizia come potere e religione, che, in quanto tale, non può tenere conto di un’opinione esterna e laica, poiché quando una religione tiene conto di un’opinione esterna e laica “è ben morta”. La giustizia non può permettersi di essere delegittimata, poiché essa “siede su un perenne stato di pericolo, un perenne stato di guerra”. La spaventevole conclusione di Riches è che l’unica forma possibile di giustizia è la “decimazione”. E ciò è − spiega il Presidente − perché l’individuo e le responsabilità individuali non esistono, i delitti sono “universali”, sono delitti contro la legittimità della forza. Non importa se vi sia il colpevole, importa che vi sia la peste (afferma Riches riferendosi alla Storia della colonna infame). Un ragionamento caratterizzato, non a caso, dall’assenza del dubbio, del rovello, del problema “del giudicare”, che dice di aver risolto, sostanzialmente, con un atto di fede. La fede nella religione dello Stato è assoluta, e Riches è un “grande inquisitore” che vede l’ispettore Rogas − il quale geme nell’ascoltare il delirio epifanico del Presidente − come un pericoloso eretico, un lettore di Voltaire, quindi sostenitore della possibilità dell’errore giudiziario.
Invece, completamente opposto al giudice Riches è il “piccolo giudice” in “Porte aperte”. Nelle pagine del romanzo del 1987 di Sciascia, il continuo interrogarsi e tormentarsi del protagonista è palmare e patente. Anche se il dubbio non è il tema principale del libro di Sciascia (od anche non è un tema), il giudice è roso dal dubbio, dal peso del proprio mestiere, evidente nelle riflessioni, nei confronti e nei pensieri che ha sulla pena di morte, sulla giustizia, sul fascismo, su “Sua eccellenza” Rocco. Nel giudice di “Porte aperte”, in conclusione, si può vedere la totale antitesi del summenzionato Riches: è il giudice che comprende appieno la “terribilità” del proprio mestiere (la terribilità di cui Sciascia parlava anche nell’articolo del Corriere) e se ne “assume” tanto più gravosamente la responsabilità. “Porte aperte” inizia con una citazione del giurista Salvatore Satta riguardante la pena di morte “la verità è che chi uccide non è il legislatore ma il giudice, non è il provvedimento legislativo ma il provvedimento giurisdizionale”, e questa è, riassumendo, la posizione del piccolo giudice: come ricorda al procuratore, una sentenza di condanna (a morte) consegna un uomo a dodici fucili imbracciati. La descrizione “inquisitoriale”, “religiosa”, “imperscrutabile”, “sacrale” dell’amministrazione della giustizia che Sciascia fa, è tutt’ora estremamente attuale. I tribunali in Italia, come diceva Sciascia, sono diventati are, e la magistratura si delinea sempre di più come un organo autarchico e impenetrabile. A suffragare la tesi di Riches, si potrebbe dire, è arrivato anche il ministro Bonafede, che a gennaio scorso in una puntata di “Otto e mezzo” affermava che “gli innocenti non finiscono in carcere”. Nondimeno, la stessa riforma della giustizia di Bonafede (con l’abolizione della prescrizione a partire dal primo grado di giudizio, anche come modificata dal lodo Conte-bis) postula il teorema di Riches: quando l’imputato è perpetuamente perseguibile − per permettere alla giustizia di “risarcire effettivamente” le vittime ed evitare che gli avvocati azzeccagarbugli rallentino il processo, secondo l’intenzione dichiarata dai grillini − è esclusa la possibilità finale dell’errore giudiziario, dell’imperseguibilità per inefficienza dell’amministrazione della giustizia, poiché tale inefficienza del potere, della magistratura, non è postulabile. E la difesa, al contrario, è una pericolosa eresia da limitare, un vezzo ed inutile cavillo. Tuttavia, tra gli adepti della dottrina giudiziaria di Riches, nell’Italia contemporanea, non vi è solo il Ministro della Giustizia, ma tutti i maggiori intrattenitori dei costanti “autodafé” televisivi, giornalisti e giudici compresi. Un episodio sintomatico dell’interpretazione sciasciana riguardo alla trasformazione della giustizia italiana in una setta ieratica è avvenuto a Racalmuto nell’estate del 2019. Durante un incontro su Sciascia (“Le possibilità che ancora restano alla giustizia”), Valter Vecellio ricordava come lo scrittore siciliano avesse sostenuto, in relazione al problema dell’assenza di “responsabilità” dei giudici, che sarebbe forse necessario far passare ai magistrati, dopo aver superato il concorso (come parte della formazione), tre giorni in carceri come l’Ucciardone o Poggioreale, perché l’esperienza sia utile alla comprensione del vero significato di una sentenza di condanna e possa suscitare una riflessione, un rovello prima di ogni pronunciazione. Questi motti di Vecellio avevano scatenato il furore di due magistrati, i quali, adiratisi, si erano veementemente scagliati contro l’intellettuale radicale sostenendo che stesse “insultando” e “disinformando”. L’aneddoto è epifanico: sembra mostrare il volto della rabbia della giustizia colpita nell’intimo, nel debole della dottrina e nella sua vulnerabilità; volto che impallidisce davanti all’oscenità del dubbio che fa crollare la fede. Sciascia si era definito, in contrapposizione agli intellettuali “organici”, un intellettuale “disorganico” od “anorganico”. Di tale “anorganicità” è segno il suo riscoprirsi sempre e nuovamente eretico, specialmente in materia di giustizia: l’opposizione di Sciascia all’emergenzialismo, al “pentitismo” e ai “professionisti dell’antimafia” diventa il vero scandalo dello scrittore siciliano. Sciascia passa dall’essere dipinto come il primo scrittore ad essersi occupato di mafia ad essere un “traditore” di sé stesso. Molti arrivano a parlare in materia di un primo e di un secondo Sciascia.
Un celeberrimo e durissimo articolo di Giampaolo Pansa su “Repubblica” nel 1987 titolava “Quando Sciascia è contro Sciascia” e, nel pezzo, il famoso giornalista accusava il “nuovo” Sciascia di incitare “a convivere con la mafia”. Pansa, nell’articolo, arrivava a chiedersi se “Sciascia combatte ancora la mafia”, e a sostenere che l’unica cosa che Sciascia facesse era demolire l’immagine di sé stesso, spacciando, “con la sua firma”, “l’immagine falsa” di un potere in Sicilia fondato sulla lotta alla mafia. Alle accuse di Pansa, Sciascia, come ricordava Bordin, si era chiesto “Ma Pansa pensa?”. Infatti, la contraddizione che molti riscontrano (a proposito della mafia) tra un “vecchio” e un “nuovo” Sciascia, accusando − come sembrava fare Pansa − il nuovo Sciascia di non comprendere il vecchio Sciascia, non esiste. L’idea di giustizia (le idee di giustizia e di diritto) di Sciascia sono già chiare ne “Il giorno della civetta”. Il capitano Bellodi, oltre ad avere una chiara (e tormentata) avversione per il fascismo e, dunque, per Mori e per l’eccezionalità costituzionale, si pone anch’egli il problema principale di Sciascia: la giustizia e la sua amministrazione. “E ancora pensò di sé ‘cane della legge’; e poi pensò ‘cani del Signore’, che erano i domenicani, e ‘Inquisizione’: parola che scese come in una vuota oscura cripta, cupamente svegliando echi della fantasia e della storia. E con pena si chiese se non avesse già valicato, fanatico cane della legge, la soglia di quella cripta” si legge in una riflessione del capitano nel primo romanzo di Sciascia. E dunque, anche in Bellodi (già in Bellodi) vi è il problema dell’inquisizione, il “problema del giudicare”, il problema del “garantismo” − chiediamo venia per l’uso di questo termine −, posto con la medesima angustia che distingue il “nuovo Sciascia”. Il Capitano Bellodi, pertanto, non contraddice lo Sciascia della critica all’antimafia, ma lo anticipa, o meglio, lo comprende. Bellodi stesso affronta il problema e lo supera: in un momento di collera, viene descritto come il Capitano avesse vagheggiato che, con un breve periodo di sospensione delle garanzie costituzionali in Sicilia, il “male sarebbe stato estirpato per sempre”. Bellodi ritorna, però, alla “misura delle proprie idee” pensando alle repressioni di Mori, al fascismo. Sciascia è stato forse un autore “incompreso”, ma sicuramente è stato uno scrittore politicamente avversato e disonestamente “travisato”, tanto da arrivare alla situazione estrema in cui Pansa voleva spiegare a Sciascia cosa esattamente pensasse Sciascia (quello vecchio, “quello vero”). Dal punto di vista politico, sulla giustizia italiana, ciò che Sciascia affermava era (ed è ancora), chiaramente ed inequivocabilmente (si potrebbe dire), “uno scandalo inintegrabile”. La semplificazione, il volerne negare il “garantismo”, il sostenere che le sue istanze sul pentitismo e sull’antimafia fossero “strumentalizzate”, è ciò che ancora oggi succede, per manipolazione politica od intellettuale, nel ricordo (sovente troppo banale e “apolitico”) e nell’analisi dell’opera del maestro di Racalmuto. Proprio pochi mesi fa, Roberto Saviano aveva sostenuto che Sciascia vedesse la giustizia anche quale “giustizia sociale”, e che il garantismo fosse stato una “storia di puttane” in Italia proprio per il mancato equilibrio tra “diritto e giustizia sociale”. Tuttavia, lo stesso Sciascia faceva notare l’assurdità delle accuse di “classismo” rivolte a coloro che sostenevano l’innocenza di Tortora; accuse secondo cui le “difese” di quest’ultimo si muovessero solo perché Tortora era un privilegiato, se non addirittura per interessi economici. Le banalizzazioni di Sciascia e della sua opera, le interpretazioni creative, l’inconciliabilità presunta tra vecchio e nuovo Sciascia, sono spesso scuse pretestuose per oscurare le scandalose e quanto mai attuali opinioni dell’intellettuale siciliano riguardo all’antimafia, al pentitismo e alla giustizia. In un Paese che si riscopre ancora oggi, in una parte consistente, favorevole alla pena di morte, che si raduna davanti alla televisione per assistere allo spettacolo quotidiano dei grandi inquisitori e che ringhia contro la Cedu, le tesi dello scrittore siciliano sono oscene, censurabili, non comprensibili e per questo si tenta ancora di nebulizzarne l’opera. Nelle opere di Sciascia si ha una rappresentazione netta e cupa della giustizia quale inquisizione; tuttavia, alcuni personaggi (Rogas, Bellodi, il piccolo giudice) esprimono un contrasto a quest’idea oscura e prevalente. Un baluginio illuminista, che rischiara le opportunità che possono ancora rimanere alla giustizia.
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