*crediti foto in calce

«Il mare e il cielo si confondevano. Non c’era orizzonte. La chiamavano l’isola del diavolo perché quel posto ricordava l’inferno e lì dentro c’erano i prigionieri più dannati di tutti. L’Assassino dei Sogni era appoggiato nel punto più alto dell’isola. Da secoli stava lì sotto la pioggia e sotto il sole e cercava di organizzare la vita delle sue vittime in modo da proibire di sognare. Da lassù mangiava l’anima, il cuore e l’amore dei prigionieri».


Sono le parole di Carmelo Musumeci[1], detenuto per 5 lunghi anni in quello che è stato (e oggi non è più) il penitenziario dell’Asinara. Nonostante gli sia stato riconosciuto un risarcimento di 28 mila euro per le condizioni disumane e degradanti patite durante la detenzione – ai quali ha rinunciato per ottenere il beneficio della liberazione anticipata – lo Stato, ad oggi, gli chiede il conto per il mantenimento. La nostra “visita” al vecchio Istituto è arricchita non solo da storie drammatiche come questa, ma dai tanti volti, luoghi e aneddoti che hanno portato alla metamorfosi dell’Asinara da isola-inferno a paradiso terrestre. Dapprima colonia penale agricola, durante i due conflitti mondiali l’Asinara è stata trasformata in un campo di prigionia, per poi diventare un carcere di massima sicurezza durante gli anni di piombo. Infine, nel 2002 è diventato un parco nazionale. L’Asinara è un luogo unico nel suo genere, dotato di una simbologia straordinaria: al mare, da sempre emblema di libertà, si contrappone il carcere, luogo di dannazione e sofferenza. Proprio in virtù di ciò, è facile che una visita dell’isola si trasformi in un momento di riflessione. Tra le bellezze paesaggistiche della natura incontaminata sorgono le nove diramazioni del grande carcere-isola, soprannominato “L’Isola dell’Inferno” o “l’Alcatraz d’Italia”, non solo perché dall’Asinara fosse praticamente impossibile evadere – salvo una singolare eccezione –, ma per via delle condizioni di detenzione disumane che i reclusi dovettero patire per lunghi anni.

La storia “penitenziaria” dell’isola è iniziata nel 1885 quando, con una legge firmata dal re Umberto I, divenne una colonia penale agricola sul modello di Pianosa. Due anni dopo entrò in vigore anche il regolamento delle colonie penali agricole in Italia, alle quali (come previsto dall’art. 1 dello stesso decreto reale) furono destinati i condannati ai lavori forzati. Durante la Grande Guerra, l’Asinara si trasformò in un lazzaretto, accogliendo il trasferimento di circa 24 mila prigionieri austroungarici, 6 mila dei quali persero la vita. Con l’avvento del fascismo e a seguito alla campagna di Etiopia, invece, tra il 1937 e il 1939 furono deportati sull’isola centinaia di confinati etiopi, tra cui anche la figlia del negus Hailé Selassié (imperatore d’Etiopia). L’amministrazione carceraria riprese il controllo dell’isola solo dopo la Seconda guerra mondiale e fu nel pieno degli anni di piombo – epoca segnata da una forte destabilizzazione delle istituzioni e da un diffuso allarme sociale – che un distaccamento del carcere (la diramazione di Fornelli)[2] venne convertito in carcere di massima sicurezza. Il 25 giugno del 1971 vennero qui trasferiti 15 condannati per reati di stampo mafioso e, 4 anni più tardi, a seguito della riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, anche vari esponenti delle Brigate Rosse, di Ordine Nero e dell’Anonima Sequestri. Nonostante il tentativo del legislatore dell’epoca di introdurre un regime trattamentale rispettoso dei canoni dell’art. 27 Cost. – con una serie di norme volte a garantire il rispetto della dignità umana –, la riforma del 1975[3] disegnò un sistema rappresentativo dell’antenato del c.d. “doppio binario” penitenziario che conosciamo oggi. In particolare, all’art. 90 venne riconosciuta la possibilità di trattare diversamente alcune categorie di detenuti, vanificando di fatto i passi avanti della riforma. Tra il 1974 e il 1980, inoltre, la direzione del carcere fu affidata alla controversa figura di Luigi Cardullo, da molti (non a caso) conosciuto come “il viceré”: negli anni della sua gestione, si registrarono numerose denunce, dovute non solo alle condizioni di vita precarie a cui erano costretti detenuti e personale penitenziario, ma altresì alla fatiscenza delle strutture e alle numerose violazioni di diritti umani, molte delle quali rese note anche grazie all’impegno di alcuni esponenti politici dell’epoca. È il caso del liberale Raffaele Costa che, dopo aver visitato l’Asinara, affermò: «Ho visto un cimitero, uomini ridotti a cadaveri viventi, con un fiore in testa». Lo stato di tensione era talmente alto che il 2 ottobre del 1979 scoppiò una violenta rivolta, battezzata rivolta “delle caffettiere”. Infatti, durante i colloqui con i parenti, alcuni detenuti (che erano stati membri delle Brigate Rosse) riuscirono ad introdurre all’interno della sezione un modesto quantitativo di esplosivo, trasformando così le caffettiere di cui disponevano all’interno delle celle in veri e propri ordigni che, una volta fatti brillare, causarono ingenti danni alla struttura del penitenziario. La rivolta, terminata con la resa dei rivoltosi nella mattina del 3 ottobre, portò al trasferimento di alcuni detenuti in altri penitenziari italiani. Tuttavia, fu proprio alla fine della gestione di Cardullo che la sezione del supercarcere di Fornelli venne chiusa, mentre l’attività carceraria sull’isola proseguì – per i detenuti sottoposti al regime di detenzione ordinaria – lungo le sezioni del grande carcere, tra cui indubbiamente rimane nota la diramazione centrale, ospitante i detenuti di maggior fiducia e, per questo motivo, sita nella parte settentrionale dell’isola, più precisamente a Cala d’Oliva, dove sorgeva un villaggio che comprendeva, oltre agli alloggi dei vari impiegati del carcere, una piccola chiesa e una scuola: in apparenza, l’ambientazione tipica di un qualsiasi borgo italiano. 

Tra le varie strutture presenti spicca, per il colore rosso dei suoi mattoni, una modesta foresteria: un altro dei contrasti che questa isola offre. Proprio qui infatti soggiornarono, nell’estate del 1985 con le loro rispettive famiglie, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Erano i mesi in cui lavoravano ad una parte dell’istruttoria per il Maxiprocesso. Per la loro breve permanenza sull’isola – come racconta lo stesso Borsellino in un’intervista a Lamberto Sposini – i due giudici dovettero pagare le spese di soggiorno e vitto. «Pagammo, noi e i familiari, diecimila lire al giorno per la foresteria, più i pasti. Avremmo dovuto chiedere il rimborso. Non lo facemmo, avevamo cose più importanti da fare. Non si trattò di somme eccessive ma non lo trovai giusto. Infatti, rivelai questa circostanza nel 1988 nel corso di una mia audizione nel corso del Consiglio Superiore»[4]. E nello stesso periodo, a pochi passi da quella foresteria, era detenuto Raffaele Cutolo, boss della Nuova Camorra Organizzata: in uno stato di completo isolamento, per molti anni, egli fu l’unico detenuto sottoposto al regime di massima sicurezza dell’isola e non si risparmiò nel denunciare le dure condizioni di detenzione che era costretto a subire. Soltanto nel 1988 ottenne il trasferimento in un altro penitenziario, a seguito di uno sciopero della fame durato ben 25 giorni. «Ho vissuto in altri regimi severi impostimi nelle celle di massimo rigore ricavate nelle cantine delle galere italiane, ma mai sono stato trattato peggio di una bestia come avviene all’Asinara»[5]. Rimane ancora oggi di profonda forza simbolica l’immagine dell’incontro di Cutolo con Enzo Tortora – in quel momento eurodeputato del Partito Radicale –, all’epoca in visita al carcere sardo per una più ampia verifica delle condizioni di detenzione di alcune carceri italiane, così come celebre è lo scambio di battute che ne seguì, con un chiaro riferimento alla triste vicenda giudiziaria di cui l’ex segretario era stato protagonista[6]. A quel tempo, però, la storia dell’Asinara non ancora era finita e altri tristi sussulti dovevano susseguirsi: a seguito delle stragi di matrice mafiosa dei primi anni ’90, in cui persero la vita i giudici Falcone e Borsellino, la legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 fu di nuovo oggetto di intervento da parte del legislatore[7]. La novità principale (ai fini del nostro racconto), questa volta, venne rappresentata dall’estensione del regime trattamentale di cui all’art. 41 bis ord. pen. ai detenuti condannati per i reati di cui all’art. 4 bis dello stesso e, ancora una volta, l’Asinara fece da mesto scenario, venendo individuato come luogo ideale per la detenzione di questi ultimi. Dopo una serie di interventi strutturali sul bunker che aveva già ospitato lo stesso Cutolo, sull’isola sbarcò anche “il capo dei capi”: Totò Riina, internato in una cella denominata “la discoteca”, perché illuminata a giorno anche durante le ore della notte. Furono queste le ultime stagioni della tormentata vita del “carcere-isola”, che nel 1998 venne dismesso definitivamente. Rimasto per anni un luogo inaccessibile, oggi rivive come un meraviglioso parco nazionale, aperto alla visita di turisti e locali, in parte anche attratti dal mistero e dalla storia che avvolge l’isola. E se in questi anni, a seguito della chiusura del carcere, non sono mancate proposte “nostalgiche” volte a ottenere la riapertura delle strutture, noi, al contrario, ne recitiamo il requiem.


[1] Carmelo Musumeci, Gli uomini d’ombra, Gabrielli Editori, 2010
[2] Deve intendersi il carcere dell’Asinara come “diffuso” nell’isola, dove appunto si ramificava nei suoi vari distaccamenti.
[3] L. 26 luglio 1975, n. 354
[4] Paolo Borsellino e il conto all’Asinara
[5] Gino Zasso, Cutolo: Sono trattato come una bestia. Lo Stato non cede al ricatto del digiuno, Corriere della sera, 16 settembre 1987
[6] Tra Tortora e il boss stretta di mano all’Asinara, Repubblica, 3 dicembre 1985
[7] D.L. 8 giugno 1992, n. 306

*foto dell’articolo “Quando l’Isola dell’Asinara era l’Alcatraz italiana”, su: www.e-borghi.com/it/curiosit/840/quando-lisola-dellasinara-era-lalcatraz-italiana.html