Il 4 marzo, Claudio Nanni e Pierluigi Barbieri sono stati arrestati. Il primo è accusato di essere il mandante dell’omicidio della moglie Ilenia Fabbri, il secondo invece di esserne l’autore materiale. E’ stato così disposto nei loro confronti un provvedimento di custodia cautelare in carcere. L’arresto di Pierluigi Barbieri, effettuato dalla Polizia, è stato oggetto di un vero e proprio cortometraggio in stile documentaristico, una specie di “evoluzione” del fenomeno della gogna mediatica. Abbiamo assistito, infatti, a qualcosa di più preoccupante del “solito” video in manette al momento dell’arresto. Nello specifico, il video della Polizia comincia addirittura con il viaggio delle volanti verso l’abitazione di Barbieri, continua con il momento dell’ammanettamento in casa e, dopo il canonico passaggio in questura, si conclude con l’arrivo in carcere dello stesso, scortato dagli agenti. Un impianto narrativo e cinematografico pensato e realizzato per scopi meramente autocelebrativi e di spettacolarizzazione dell’operazione, ma in totale contrasto con l’art.114 comma 6-bis del codice di procedura penale e con uno dei principi cardine della nostra civiltà giuridica: la presunzione di innocenza.
In un Paese dove, secondo la percezione della maggioranza, la giurisdizione si esaurisce nell’indagine, o meglio, nell’ipotesi di indagine, non sorprende come l’ordinanza applicativa di una misura cautelare – specie se custodiale – possa essere venduta e percepita come il vero e proprio epilogo di una vicenda giudiziaria. Il problema che qui intendiamo segnalare, tuttavia, risiede non tanto nell’abnorme risonanza mediatica garantita a tale fase procedimentale dalla maggior parte degli organi di informazione italiani – che, notoriamente, strizzano l’occhio alle procure –, quanto nella sempre più diffusa spettacolarizzazione di essa. Infatti, parrebbe che la sete di giustizia sommaria che anima l’istinto penal-populista del commentatore del processo penale debba essere adeguatamente appagata non solo tramite le incessanti fughe di notizie riguardanti le indagini in corso, ma addirittura tramite la concreta visione di ciò che accade durante tale fase, affinché egli possa compiacersi dell’operato degli organi d’accusa e fors’anche sentirsi partecipe di una presunta “vittoria” dei buoni sull’antagonista di turno. Non è inusuale, infatti, che le immagini riguardanti operazioni di polizia siano proiettate sui canali di informazione; immagini che – sia detto per incidens – a giudicare dal maniacale lavoro di montaggio e post-produzione, parrebbero confezionate unicamente a tale scopo. Stavolta, però, si è persino andati oltre. Ed infatti, la misura cautelare disposta nei confronti di Pierluigi Barbieri per l’omicidio della compianta Ilenia Fabbri, eseguita la mattina del 4 marzo scorso, ha dato origine ad un vero e proprio cortometraggio della durata di circa 90 secondi (rilanciato, tra gli altri, anche sul Resto del Carlino online). Nel video in questione, il momento dell’arresto di Barbieri è stato dato in pasto al grande pubblico; neppure la privata dimora è stata risparmiata dal divenire “scena” di questo spettacolo cui, nostro malgrado, siamo stati costretti ad assistere. Un’opera priva di qualsiasi equilibrio e senso istituzionale, che si pone, tra l’altro, in aperta violazione delle norme che vietano categoricamente la pubblicazione di immagini riguardanti soggetti privati della libertà personale.
Sul punto, è necessario sottolineare sin da subito come l’apposizione del logo del Corpo di Polizia che materialmente ha eseguito l’operazione non spieghi alcuna efficacia scriminante. Al contrario, l’istituzionalizzazione del materiale multimediale in questione rende ancor più grave e censurabile la condotta, in quanto, operando in tal senso, si ufficializza in maniera manifesta la violazione di plurime disposizioni di legge da parte di chi, invece, dovrebbe farle osservare. Come sancito dall’art. 114, co. 6-bis, c.p.p., infatti, è vietata la pubblicazione di immagini raffiguranti la persona privata della libertà personale mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi; un divieto, questo, ancor più delicato in ragione della fase in cui dette operazioni si collocano. Non v’è chi non veda, infatti, come la condotta in commento si ponga in aperto contrasto con l’art. 27 della Costituzione, il quale stabilisce, come noto, la presunzione di innocenza dell’imputato fino alla sentenza definitiva di condanna. Su quest’ultimo punto, sia consentita un’ulteriore notazione. Deve considerarsi, infatti, che il rito accusatorio – sposato, quantomeno sulla carta, nel 1989 – imporrebbe un giudice del dibattimento “vergine” e libero da qualsiasi pregiudizio nei confronti dei fatti per cui v’è il processo. Tuttavia, come potrebbe un giudice – che è essere umano – decidere in piena libertà, senza alcuna forma di condizionamento, in siffatte condizioni? Con ciò, chiaramente, non vuole affermarsi l’esistenza di un’effettiva influenza conseguente alla spettacolarizzazione della fase che precede il giudizio; semplicemente, pare difficile immaginare che il giudice (anche in maniera del tutto inconscia) sia di fatto scevro da qualsivoglia pregiudizio quando il “tribunale del popolo” ha emesso la sua sentenza (sommaria) già mesi o anni addietro. La gravità del fenomeno ha portato addirittura il legislatore europeo a censurare, tramite la Direttiva 2016/343, l’utilizzo di materiale multimediale per scopi e finalità differenti rispetto all’efficienza delle indagini. La Direttiva de qua, infatti, prevede l’espresso divieto di utilizzazione del predetto materiale da parte degli organi d’accusa a scopi meramente auto-celebrativi e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica; ciò, proprio al fine di preservare l’integrità di quel principio cardine della nostra civiltà giuridica rappresentato dalla presunzione di innocenza (sul punto, sia consentito rinviare ad un’attenta ed approfondita analisi pubblicata sul nostro sito [1]). Infine, deve sottolinearsi come la violazione dei divieti previsti, rispettivamente, dagli artt. 114 e 329 c.p.p. costituisca uno specifico illecito disciplinare per coloro i quali esercitino una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, con conseguente dovere di informazione degli organi titolari del potere disciplinare gravante in capo al Pubblico Ministero. Eppure, in merito, non risultano precedenti noti, quantomeno allo scrivente.
Insomma, che l’ordinamento appresti normativamente una adeguata tutela all’immagine dei soggetti privati della libertà personale pare pacifico, posto che il rispetto della dignità umana non può e non deve essere obliterato in favore di una pretesa necessità di sensibilizzazione dell’opinione pubblica o, peggio, per finalità autocelebrative. La sprezzante violazione delle norme e dei principi summenzionati, infatti, è in grado di generare effetti devastanti sulla vita di coloro i quali (talvolta anche per errore) si trovano coinvolti in una indagine. Come rilevato dall’Unione delle Camere Penali Italiane [2], non sono stati sufficienti i 28.702 casi di errori giudiziari – con conseguente riparazione per ingiusta detenzione – rilevati dal 1992 fino al 31 dicembre 2019 a far riacquisire alla fase delle indagini preliminari la connotazione segreta ed ipotetica che dovrebbe caratterizzarla. Molte di quelle persone ingiustamente sottoposte a restrizione della libertà personale sono state – e tutt’ora sono – “sbattute in prima pagina”, con conseguente distruzione della loro dignità ed immagine personale; la questione, però, non pare destare la preoccupazione di coloro i quali risultano essere, a vario titolo, partecipi di queste gravi e frequenti trasgressioni. Del resto, cosa ci si potrebbe aspettare quando, per alcuni operatori della nostra giustizia penale (con visioni evidentemente antitetiche rispetto alle nostre), “gli innocenti sono solo colpevoli che l’hanno fatta franca”? Va da sé, dunque, che l’eventuale e successiva assoluzione nella fase di merito del processo – sede, questa, naturalmente deputata a tale accertamento – sarebbe del tutto inidonea ad eliminare la macchia del colpevole, che, nell’opinione pubblica, resterebbe tale nonostante il lieto fine. Una macchia praticamente indelebile, anche (e forse soprattutto) a causa della “spettacolarizzazione” delle indagini preliminari di cui si è detto. Non possiamo che unirci, pertanto, alla causa perorata dai penalisti italiani (che dovrebbe essere in realtà quella di tutti i cittadini) affinché si riacquisisca, oltre al rispetto delle norme che espressamente vietano la spettacolarizzazione del processo penale, anche il senso istituzionale necessario a salvaguardarle.
[1] R. BARONE, Perché i video delle operazioni delle Forze dell’Ordine pregiudicano la presunzione di innocenza, in Extrema Ratio, 15 febbraio 2021;
[2] Ci risiamo: il mostro in prima pagina!, nota dell’Unione delle Camere Penali, 7 marzo 2021.
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