Poche settimane fa il Senato ha approvato con 180 voti a favore il ddl di revisione costituzionale relativo alla diminuzione del numero dei parlamentari che andrebbe a modificare gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione. In caso di ulteriore approvazione alla Camera, con una maggioranza inferiore ai 2/3, ci sarebbe comunque la possibilità per 1/5 dei componenti di una camera, 500mila elettori o 5 consigli regionali di richiedere un referendum popolare confermativo. Si tratta di uno scenario affatto scontato (lo fu in occasione della riforma Renzi-Boschi considerata da più parti una pericolosa deriva autoritaria) in quanto nessun partito rischierebbe di assumersi la responsabilità di fronte ai propri elettori di fare netta opposizione ad una riforma che ha come obiettivo quello di portare da 630 a 400 i deputati e da 315 a 200 i senatori.

 

La riforma rientra in un più ampio disegno di riforme costituzionali che l’attuale governo intende perpetrare. L’obiettivo teorico di tali riforme sarebbe quello di migliorare la qualità delle decisioni in due modi: attraverso l’ampliamento della partecipazione dei cittadini alla vita politica e con il miglioramento dell’efficacia dell’attività del parlamento.
L’oggetto delle riforme rientra pienamente nella retorica pentastellata contestatrice
delle istituzioni e dei loro massimi rappresentanti (ricordiamo, tra le molte, il bizzarro tentativo di messa in stato di accusa, “impeachment”, del Presidente Mattarella da parte degli esponenti del M5s in occasione dell’opposizione del Presidente alla nomina di un ministro, facoltà, peraltro, conferitagli dalla Costituzione) ed è coerente alla visione distorta della democrazia rappresentativa quando il partito di Grillo afferma che “la democrazia diretta è la stella polare del Movimento”
Ma occorre valutare la riforma nel merito, oltre che nel metodo. Non si tratta infatti di criticarla in difesa delle “poltrone”, quanto dei seggi parlamentari e, in particolare, degli equilibri sanciti a suo tempo in Costituzione per stabilire una legittima rappresentanza reale del paese, che tenesse conto della densità popolare e che garantisse anche alle formazioni minori un peso politico in parlamento.
A ben guardare questa idea di un parlamento ipertrofico non solo non si capisce bene a quale parametro, in termini numerici, si riferisca ma anche non si intende come si prefigga di migliorare la qualità delle istituzioni se alla riduzione del numero dei parlamentari non affianca una opportuna riforma della legge elettorale. Infatti la riduzione del numero dei rappresentanti, a legge elettorale invariata, determinerebbe anche una riduzione del numero dei deputati eletti direttamente dal popolo: il Rosatellum prevede che solamente il 37% dei deputati e senatori siano eletti col sistema dei collegi uninominali, e quindi direttamente, mentre il 61% è eletto attraverso il proporzionale e, quindi, senza preferenze, con listini bloccati.

Insieme alla riduzione del numero dei parlamentari e, con ciò, alla volontà di limitare e indebolire i poteri del parlamento, si consolida l’impegno più o meno consapevole di voler intraprendere la strada della democrazia diretta attraverso un ulteriore intervento riformatorio: l’istituzione del referendum popolare propositivo, attualmente assente nel nostro ordinamento.
Si può discutere sulla necessità di rafforzare un canale di produzione legislativo parallelo o integrativo a quello parlamentare, solo se prima si rafforza quello parlamentare. Altrimenti, così come viene ad oggi presentato, il referendum propositivo senza limiti certi è un canale non più integrativo quanto piuttosto alternativo alla produzione legislativa parlamentare.
Pensiamo ad esempio alle materie sensibili come quelle di natura penale. Affidare nelle mani dei cittadini, sempre più “assetati di giustizialismo e populismo” come suggerisce Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale, uno strumento delicato come l’iniziativa legislativa rafforzata anche in ambito di materie penali, altrettanto delicate, rischierebbe di compromettere l’impianto democratico del nostro Stato di diritto.

Sarebbe ingenuo disconoscere che ci troviamo in un periodo storico in cui l’opinione pubblica è sempre più coinvolta emotivamente nelle vicende giudiziarie del paese. Ed è una particolarità italiana, quella di una giustizia spesso e volentieri protagonista delle vicende politiche, che ha origine quasi trent’anni fa con tangentopoli. Da quel momento storico di cesura si è venuto a creare un rapporto anomalo tra politica e magistratura e si è diffusa nel paese una sensazione di sfiducia nella politica, considerata come luogo di corruzione e di truffe. La sfiducia nelle istituzioni in generale veniva fomentata anche, e soprattutto, da azioni della magistratura che spesso debordavano dal loro ruolo di organo terzo, e si ergeva ad icona una concezione della giustizia come mezzo per poter individuare e condannare i difetti della politica.

La concezione di democrazia che prevale nell’ideologia pentastellata è dunque quella di democrazia diretta, intesa secondo due prospettive. La prima è un progetto concreto e realistico da attuare attraverso strumenti partecipativi come i referendum, la piattaforma online, il voto digitale (strumento ancora molto delicato), che ipoteticamente potrebbero convivere e integrare la democrazia rappresentativa. La seconda rappresentazione si basa su una concezione in maggior misura “ideale” che aspira ad un futuro superamento dei partiti e delle forme di mediazione politica; un superamento, quindi, delle funzioni del parlamento. Questa visione prende vita e si rafforza grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, come i social network, i media o blog attraverso i quali i leader populisti mantengono un rapporto costante e diretto con i loro elettori. Questi ultimi, avendo intuito la potenza di tali mezzi, ne approfittano per provare ad avere un impatto reale ed immediato.

È venuto dunque a realizzarsi il timore che esprimeva Bobbio ne “Il futuro della democrazia” quando scriveva “nessuno può immaginare uno Stato che possa essere governato attraverso il continuo appello al popolo (…). Salvo nell’ipotesi per ora fantascientifica che ogni cittadino possa trasmettere il proprio voto a un cervello elettronico standosene comodamente a casa e schiacciando un bottone”. Ora che questa ipotesi ha drammaticamente cessato di essere solo un’idea fantascientifica occorre stabilire quali sono le barriere da interporre ad una pericolosa deriva dello Stato di diritto. Non è un caso, infatti, che i paesi non democratici sono attualmente in aumento nel mondo e occupano quote sempre più alte del Pil mondiale: secondo la rivista “Foreign Affairs” sono passati dal 12% del 1990 al 33% odierno, con una previsione del 50% tra cinquant’anni.

Se si realizzasse l’ideale pentastellato di superamento della funzione del parlamento, “non più necessario” come dice Casaleggio, come potremmo immaginare le sue attività svolte dai cittadini comuni? Saremmo in grado di affrontare e gestire una mole ingente di questioni legislative, e non, con lucidità e consapevolezza?