Esattamente un anno fa usciva un articolo su Extrema Ratio intitolato Più misure alternative, meno carcere: i dati parlano chiaro”, dove parlavamo proprio della situazione inaccettabile delle carceri italiane e delle possibili soluzioni per combattere l’endemico sovraffollamento. Eccoci qui, un anno dopo, a scrivere di quello che rischia di essere ricordato come uno dei momenti più neri del sistema giustizia nella storia della Repubblica. La totale noncuranza delle nostre istituzioni per la situazione dei detenuti nell’ambito dell’emergenza coronavirus lascia senza parole. E il tutto è reso più grave dalla quantità di appelli pervenuti da esperti, professori, avvocati, magistrati, puntualmente ignorati non solo dal Ministro della Giustizia Bonafede, ma da tutta la maggioranza.

Il 2 e l’8 di Marzo, a seguito dello scoppio dell’emergenza COVID-19 e delle conseguenti proteste in carcere, l’esecutivo è intervenuto con due decreti legge, il n. 9 e il n. 11 del 2020, che prevedevano, ove possibile, lo svolgimento a distanza- tramite videochiamate o telefonate- dei colloqui dei detenuti con i congiunti o con altre persone, nonché la possibilità per la magistratura di sorveglianza di sospendere fino al 31 maggio la concessione di permessi premio e del regime di semilibertà. Nient’altro veniva previsto per le carceri mentre, per il resto dei cittadini, si cominciavano ad introdurre le varie misure di contenimento, tra cui il distanziamento sociale e altre di carattere igienico-sanitario. L’idea di fondo era già chiara: chiudere totalmente gli istituti di pena al mondo esterno, “perché si è più sicuri dentro che fuori”. Questa è stata la molla che ha innescato le rivolte del 9 e 10 Marzo in ventisette case circondariali, che hanno coinvolto, più di 6000 detenuti, secondo quanto riportato dal Ministro stesso. Con ciò non si vogliono certamente giustificare tali azioni, che anzi, rimangono fermamente da condannare. E’ doveroso altresì sottolineare, però, come le istituzioni non abbiano minimamente pensato alle possibili conseguenze dei propri provvedimenti, i quali privavano i detenuti di qualsiasi contatto con l’esterno (vitale per loro) e, allo stesso tempo, non affrontavano in alcun modo la questione del sovraffollamento e delle condizioni igienico-sanitarie in cui essi vivono.

Infatti, attualmente, le carceri italiane ospitano – secondi i dati del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP)61.230 persone, quando la capienza regolamentare sarebbe di 50.931 posti. Vi sono più di diecimila soggetti in eccesso, un dato che certifica la costante e sistematica violazione di diritti umani da parte del nostro Paese, insistendo ciecamente nella stessa direzione che ci ha portato nel 2013 alla condanna della Corte di Strasburgo con la sentenza Torreggiani. Si può dire che sia quantomeno comprensibile la preoccupazione dei detenuti, poiché mentre all’esterno si imponevano misure di distanziamento sociale, loro rimanevano costretti a vivere in spazi minimi, dove l’assembramento è inevitabile, dove spesso si sta in celle di 9mq in più di tre o quattro persone, dove i servizi igienico-sanitari sono carenti e dove, come riportato dall’Associazione Antigone, il il 67% dei soggetti ha avuto patologie pregresse gravi, tra cui malattie cardiache e respiratorie.

Le rivolte, come si diceva, hanno coinvolto il 10% della popolazione carceraria, provcando la morte di 14 detenuti (in circostanze ancora da chiarire, anche se si parla di ingestione di farmaci e metadone da parte dei detenuti stessi), nonché il ferimento di 59 agenti della polizia penitenziaria, oltre alla devastazione di diversi istituti e all’evasione di decine di soggetti come avvenuto a Foggia. Date le pressioni esercitate da più fronti, il governo è intervenuto con alcune soluzioni nell’ambito del Decreto “Cura Italia” n. 18 del 2020. Le disposizioni in questione, per far fronte all’emergenza, prevedono, innanzitutto, delle modifiche temporanee (fino al 30 giugno 2020) allo strumento della detenzione domiciliare, relativamente alle preclusioni, alla procedura per la concessione e agli strumenti di controllo. In particolare si prevede che, salvo per alcune categorie di reati e di condannati, la pena detentiva non superiore a di diciotto mesi- anche se parte residua di maggior pena-può essere eseguita presso il domicilio. Non grandi cambiamenti vengono apportati alle preclusioni (solo in parte modificate) e alla procedura (semplificata). Rilevante è, invece, la previsione dell’obbligo del braccialetto elettronico per tutti coloro che accedono alla misura con una pena da scontare superiore a sei mesi.

Sempre nel decreto, si prevede inoltre, che le licenze premio straordinarie già concesse per i detenuti in semilibertà possano durare fino al 30 giugno 2020, in deroga al limite di 45 giorni normalmente previsto. Mentre quest’ultima pare ragionevole, seppur di minimo impatto (al 15 Febbraio, i soggetti in semilibertà erano poco più di mille), le modifiche apportate alla disciplina della detenzione domiciliare-come già è stato fatto notare da molti esperti- sono assolutamente insufficienti, ed espressione di un governo che non ha minimamente compreso la gravità della situazione che stiamo vivendo. I detenuti in eccesso sono almeno diecimila. Per poter raggiungere una situazione accettabile, questo è il numero minimo di persone che devono essere ammesse a misure alternative, cosicché possano uscire dagli istituti sovraffollati. Tutto ciò è necessario perché sia garantita la salute di tutte le persone che vivono e lavorano nelle carceri, molto più vulnerabili per via delle condizioni igienico-sanitarie dei luoghi in cui si trovano. Ma non solo. Garantire la salute in carcere significa garantire la salute della società tutta. Se il virus comincia a diffondersi all’interno degli istituti, si rischia di innescare una vera e propria “bomba epidemiologica”, come è stata definita dal governo stesso. Pensare che il virus, una volta entrato in carcere, non possa avere effetti anche al di fuori delle mura carcerarie, significa non fare i conti con la realtà. Le persone contagiate vengono comunque ricoverate presso gli ospedali, contribuendo ad affollare reparti già al collasso. Le previsioni contenute nel decreto non sono che il solito modo cinico e irresponsabile di (non) affrontare l’emergenza sovraffollamento a cui questo governo- ma non solo- ci ha abituato, con in più l’aggravante della circostanza straordinaria nella quale versa il paese.

La misure predisposte sono inadeguate per due motivi. Il primo motivo è che il numero dei detenuti con una pena residua inferiore a diciotto mesi, sempre sulla base dei dati del DAP, si aggira su un numero poco superiore a diecimila (le statistiche classificano solo i detenuti con pena fino ad un anno o da uno a due anni, rendendo difficile la stima). Un numero astrattamente idoneo ad incidere sul sovraffollamento ma che, in concreto, viene ridimensionato dalle preclusioni sopracitate. Il secondo motivo, assorbente rispetto al primo, è l’insufficienza dei braccialetti elettronici a disposizione. Come risulta dal decreto attuativo delle norme in esame, infatti, i braccialetti messi a disposizione sono cinquemila, di cui solo 920 già disponibili e la loro installazione procederà secondo un ritmo non più di 300 apparecchi a settimana. Come ha fatto notare il presidente dell’Associazione Antigone, Patrizio Gonnella, in prima linea a combattere questa battaglia, con questi numeri gli ultimi detenuti uscirebbero addirittura tra tre mesi, ossia quando l’emergenza si sarà verosimilmente attenuata. La norma, inoltre, rischia anche di essere incostituzionale per violazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., dal momento che la disciplina generale della detenzione domiciliare prevede già il controllo facoltativo con dispositivo elettronico, anche per condannati a più di diciotto mesi di pena.

Di fronte a queste considerazioni, non si può che constatare l’insufficienza dell’azione del governo, nonché l’inopportunità delle dichiarazioni del Ministro Bonafede, che, in Parlamento, nel rispondere alle contestazioni avanzate dalla Lega per l’approvazione di un decreto “svuota-carceri” (giusto per confermarci che l’inadeguatezza è bipartisan), ha specificato- come a giustificarsi- che, “ad ora, solo cinquanta detenuti hanno beneficiato della misura”. Si sperava che il Parlamento, dando vita a un sano dibattito tra maggioranza e minoranze, potesse svolgere a pieno la propria funzione. Speranze che però sembrano svanire, dal momento che l’esecutivo al Senato ha posto la fiducia, evitando di fatto, data la prassi che si sviluppa in questi casi, ogni possibilità di svolgere una seria ed ampia discussione in merito e perpetuando, tra le altre cose, questa inaccettabile inerzia rispetto all’emergenza carcere. A seguito dell’emanazione del Dl “Cura Italia”, varie proposte per affrontare in maniera seria l’emergenza erano state avanzate, tra gli altri, dall’Unione Camere Penali, dall’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, dall’Associazione Antigone, nonché da singoli esponenti dell’accademia e anche della magistratura come Antonio D’Amato, componente togato del CSM di Magistratura Indipendente, o Giuseppe Cascini, consigliere al CSM per Area. Tutti sono sostanzialmente d’accordo sulla necessità di una serie di interventi, alla cui richiesta anche noi, nel nostro piccolo, ci uniamo:

Innalzare ad almeno due anni il limite di pena detentiva richiesto per l’ammissione alla detenzione domiciliare;

il controllo con braccialetto elettronico deve essere previsto come facoltativo, date le citate carenze. Si tratta di uno strumento la cui inutilità è certificata anche dal fatto che solo lo 0,7% delle misure alternative sono state revocate per commissione di nuovi reati;

reintrodurre la liberazione anticipata speciale, che porta i giorni di detrazione di pena per semestre da 45 a 75. Questa misura ha già dimostrato di poter portare a grandi benefici quando è stata introdotta per la prima volta nel 2013;

prevedere, temporaneamente, la possibilità, per i detenuti in semilibertà o ammessi al lavoro all’esterno, che abbiano già dato prova di buona condotta, di permanere presso il proprio domicilio;

ridurre il flusso in entrata con la sospensione, fino al 30 giugno, della emissione degli ordini di carcerazione di pene fino a 4 anni divenute definitive;

prevedere che, in sede di convalida della misura cautelare, il giudice debba tenere conto anche della odierna emergenza sanitaria, così da privilegiare, quando possibile gli arresti domiciliari alla custodia cautelare in carcere, seguendo il principio dell’extrema ratio.

Inoltre, data la notevole incidenza che anche l’attività dei pubblici ministeri può avere nel fronteggiare questa emergenza, il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, ha da ultimo diramato una circolare per orientare le scelte che questi devono prendere ogni giorno- con riferimento, in particolare, alle misure cautelari e all’esecuzione della pena detentiva- chiedendo di fare fede al principio di utilizzo del carcere come extrema ratio. Un’iniziativa degna di nota, che si spera possa indirizzare tutti i pubblici ministeri nello svolgimento della loro attività.

Anche varie organizzazioni internazionali hanno sottolineato l’urgenza di interventi volti a salvaguardare la salute dei detenuti e delle persone che lavorano negli istituti e, più in generale, a mettere in sicurezza le strutture dal punto di vista sanitario. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha raccomandato un maggior ricorso a misure non detentive “in tutte le fasi dell’amministrazione della giustizia penale”, privilegiando, soprattutto, i soggetti che necessitano di assistenza medica. Sulla stessa linea si è espresso anche il Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle punizioni e dei trattamenti inumani e degradanti (CPT), specificando come, in situazioni di sovraffollamento, l’utilizzo di misure alternative debba essere considerato un imperativo. L’Alto commissario ONU per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha dichiarato che: “Le autorità dovrebbero esaminare i modi per liberare le persone particolarmente vulnerabili al COVID-19, tra cui i detenuti più anziani e quelli che sono malati, nonché i detenuti non pericolosi”, mentre, da ultimo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha espressamente richiesto al governo italiano chiarimenti sulle misure adottate per la gestione dell’emergenza nelle carceri, esprimendo dubbi sulla idoneità delle stesse a garantire la sicurezza dei detenuti. Anche Papa Francesco si è più volte soffermato sulla questione, sollecitando i governi di tutto il mondo ad intervenire anche con riguardo “ai dimenticati da tutti, i carcerati”, e pregando perché “coloro che debbono prendere decisioni, trovino una strada giusta per risolvere il problema”.

Cina, Stati Uniti, Spagna, Germania, Regno Unito, hanno in vario modo agito per ridurre la popolazione carceraria. La Francia ha notevolmente potenziato la misura degli arresti domiciliari, consentendo l’uscita di circa seimila detenuti. Persino la Turchia e l’Iran sono intervenute in questo senso, liberando, a titolo temporaneo, rispettivamente novantamila e settantamila persone. La “strada giusta” è chiara ed è stata indicata da molti, ormai. Ciò che manca è la volontà delle forze di maggioranza (e non solo) di seguirla. Il tempo stringe e i detenuti positivi, ad oggi, risultano essere 58, di cui 11 ricoverati in ospedale, mentre tra gli agenti della Polizia Penitenziaria vi sono già 178 contagiati. Inoltre il 2 aprile scorso, c’è stato il primo morto per Covid-19, un detenuto di 76 anni che, prima di morire, è stato ricoverato all’ospedale di Bologna. Peraltro, si tratta di numeri totalmente inaffidabili, data la scarsità di tamponi effettuati. In Lombardia, per esempio, su 8.720 carcerati, solo 147 sono stati sottoposti a tampone. Le esperienze di Cina e Iran hanno già dimostrato la velocità con cui il virus può trasmettersi nelle carceri, dove mancano zone adatte per l’isolamento. Per questo è necessario che si intervenga prima che sia troppo tardi, quando la “bomba epidemiologica” esploderà. Le proposte sono lì, l’auspicio è che la politica sappia farle proprie per il bene di tutti, anche se la speranza in tal senso è più che vana.