Mentre la situazione nelle carceri appare sempre più drammatica (come evidenziato dai 1000 operatori sociosanitari per le carceri di cui è stata fatta richiesta dal Ministero della Giustizia), solo recentemente il ministro Bonafede è riemerso da un silenzio mediatico tombale per precisare che un 78enne infermo e cardiopatico al 41-bis non era stato scarcerato in forza delle norme previste nel “Cura Italia”. Infatti, sia giornali di destra che di sinistra si erano scatenati gridando alla fantomatica trattativa Stato-Mafia, anche quelli che avevano fatto il peana di Sciascia, di Bordin, del garantismo “quello vero”. Così, il Guardasigilli ha precipitosamente annunciato delle nuove norme per “tenere dentro” i detenuti al 41-bis. Il 29 Aprile, infatti, è stata approvata per decreto una misura per la quale i magistrati di sorveglianza debbano chiedere il parere non vincolante delle Procure antimafia prima di scarcerare un detenuto sottoposto al cosiddetto carcere duro.

I vecchi, i cardiopatici e i malati che rimangono angosciosamente  costretti senza vicine e più idonee opzioni di liberazione, mentre l’affollamento del carcere degenera in una trappola funesta. Questa è la sconcertante ed ulteriore fisicità della detenzione, marcata dalle problematiche legate alla diffusione di importanti cluster di epidemia nelle carceri di Bologna e Torino. Ora, oltre alla limitazione del proprio movimento in spazi angusti, oltre al vivere in luoghi tendenzialmente fatiscenti ed insalubri, si aggiunge una pressante, insinuante angoscia per la malattia, in un luogo ove le possibilità di cura (e di salvezza) sono contingentate, dipendono solo dalle determinazioni di altri, dal provvedimento di un magistrato. 

Recentemente, il ministro Provenzano e Roberto Saviano hanno identificato due distinti profili di garantismo: un garantismo formale (quello delle cd. “puttane di Beccaria”) e un garantismo “sostanziale”. Quest’ultimo, naturalmente, sarebbe il vero garantismo, il quale secondo una loro fantasiosa reinterpretazione di Bordin e di Sciascia corrisponde alla “giustizia sociale”. Saviano arriva a parlare della necessità di trovare un equilibrio tra diritto e giustizia sociale, presupponendo un sacrificio del diritto in favore di un “trade-off di classe”. Tuttavia, la narrativa del garantismo “pio”, come pietà e vicinanza verso gli ultimi, o la narrativa del garantismo “marxista”, che può arrivare a vedere la giustizia come risarcimento di classe, sono due narrative monche, profondamente ideologiche ed imprecise.

Potremmo comunque affermare che una parte sostanziale, se non addirittura strettamente “materiale” del garantismo e dello stato di diritto, esiste, ed è  indissolubilmente legata a quella “formale”. La dimensione fisica e sostanziale del garantismo ha esattamente a che fare con la corporalità della detenzione. La detenzione, tanto più in condizioni disumane, è un potere che lo Stato assume nei confronti di quanto più intimo e personale esiste, ossia il corpo, che è la più vera essenza della persona nell’esercizio della propria indipendenza e libertà individuale. Nel “Consiglio d’Egitto”, Sciascia fa descrivere la tortura all’avvocato Di Blasi, l’effetto straniante che essa ha nei confronti di un corpo che diventa irriconoscibile. Tuttavia, Di Blasi arriva ad evidenziare come la tortura dimostra che il corpo è tutto, perché “ciò che resiste è il corpo, non l’anima, bensì il corpo e la mente (che è corpo)”.  Così, nella detenzione come nella tortura, lo Stato prende possesso, si insinua nella pelle viva, penetra nelle membra fino ad arrivare alla mente. Dal travaglio, dal disagio fisico, si arriva allo strazio, al tormento mentale dell’isolamento (come anche dimostra l’abnorme numero di suicidi nelle carceri italiane).

Nella contingenza dell’epidemia, l’intrusione esterna sul corpo dei detenuti è esasperata e più a fondo nella mente. Il morbo avanza, diventa un altro tiranno carceriere, e così la paura e il terrore, senza la possibilità di distanziamento o di adeguate misure preventive. Se la detenzione (dopo la tortura) è la massima incursione che è permessa allo Stato nelle libertà personali, se è la più gravosa (e la più fisica) imposizione sull’individuo, il garantismo non deve essere, come lo vedono molti, l’arte di “essere dalla parte degli ultimi”, non “giustizia sociale”, ma la battaglia libertaria per eccellenza di protezione della persona dallo Stato, dall’intrusione indebita nella sua intima privatezza, nella sua integrità fisica e quindi mentale.

 Si potrebbe concludere che, così come mente e corpo per l’essere umano sono inscindibili, così nell’essenza della Repubblica lo sono sostanza e forma. Allora la forma astratta della tutela dei diritti è sostanza per le libertà dei cittadini, come la forma dello stato di diritto è la sostanza che anima e consente la democrazia e il libero dibattito. Viceversa, le violazioni materiali dei diritti dei detenuti sono deturpazioni della formalità dello stato di diritto. Non è forse un caso che l’espressione con cui vengono indicate le prime ed essenziali garanzie della difesa sia “habeas corpus”, la cui origine è discussa anche se, nondimeno, secondo alcune interpretazioni il suo significato è “abbi il tuo corpo”, ovvero “abbi la tua libertà”: la libertà di disporre del tuo corpo, da cui il principio dell’inviolabilità personale.