L’emergenza dettata dal COVID-19 è stato il pretesto per l’ultima mossa della lunga scalata autoritaria di Viktor Orbán: annichilire il Parlamento.

Nella sera del 30 Marzo, il Parlamento ungherese (con 173 voti a favore e 53 contrari) ha votato una legge speciale che ha consegnato a Viktor Orbán i “pieni poteri”, innanzitutto per fronteggiare l’emergenza del Coronavirus. Pertanto, il premier ungherese avrà, tra le tante, la possibilità di governare esclusivamente per decreto, di rimandare  le elezioni, di chiudere il parlamento e, ancora, di modificare o sospendere le leggi esistenti, oltreché prevedere la detenzione fino a cinque anni per chi verrà ritenuto colpevole di diffondere fake news. Lo stato di emergenza illimitato e incondizionato ottenuto da Orbán, così come la concentrazione di potere che ne deriva, non è solo figlio del Covid-19, ma consiste anche nel coronamento di un percorso remoto. Infatti, il suo obiettivo originario è stato l’abbandono della democrazia liberale in favore di una “democrazia illiberale”, come proclamato dallo stesso premier ungherese: “Diciamo con sicurezza che la democrazia cristiana non è liberale. La democrazia liberale è liberale, mentre la democrazia cristiana per definizione non è liberale. Se vi piace, è illiberale. E possiamo dirlo in particolare in relazione ad alcune questioni importanti. La democrazia liberale è a favore del multiculturalismo, mentre la democrazia cristiana dà la priorità alla cultura cristiana; questo è un concetto illiberale. La democrazia liberale è pro immigrazione, mentre la democrazia cristiana è anti immigrazione. E questo, è un concetto davvero illiberale. La democrazia liberale si schiera a favore di modelli familiari adattabili, mentre la democrazia cristiana poggia su fondamenti del modello familiare cristiano. Ancora una volta, questo è un concetto illiberale”.

Dunque Orbán, facendo leva su un orientamento dichiaratamente illiberale e basandosi sul rifiuto e sul disprezzo del multiculturalismo col pretesto della difesa dei valori cristiani, è riuscito a consolidare il suo potere, raccogliendo il 47% dei voti e assicurandosi i 2/3 in Parlamento anche alle elezioni del 2018. Ma qual è stato lo sviluppo di tale successo? Analizzando dapprima la sua genesi, il premier ungherese non è più lo stesso del 1989, quando posizioni anticomuniste e filo-occidentali gli garantirono l’ammirazione e l’appoggio di quei circuiti liberali che ora, ragionevolmente, lo osteggiano. E così anche in riferimento al periodo 1998-2002 quando, da primo ministro in carica, promise di migliorare il tenore di vita dei suoi cittadini per permettere loro di “vivere come in Austria”, beneficiando anche dell’imminente ingresso nell’Unione europea. 

Dopo due sconfitte consecutive (2002 e 2006) contro gli avversari socialisti, Orbán tornò al potere nel 2010, con una marcata svolta ideologica di tipo nazional-conservatrice ed un disegno ben preciso: rafforzare la sua autorità, assicurando a lui e al suo partito di rimanere al potere il più possibile. [1] E così è stato. Dal 2010, infatti, Orban e il suo partito “Fidesz” hanno una solida maggioranza in Parlamento, che gli garantisce un forte controllo del paese e che, in questi tempi, è valsa un vero e proprio “golpe bianco”, con il quale ha di fatto silenziato le minoranze e annichilito la democrazia parlamentare. In questi anni Orbán, noncurante delle critiche e dei richiami di Bruxelles, ha, in primo luogo, gradualmente attaccato e minato la costituzione, modificandola in maniera unilaterale e senza l’appoggio o il contributo dei partiti di opposizione. Un grave attentato ai principi dello Stato di diritto. Con l’entrata in vigore della “Legge fondamentale”, il 1° gennaio 2012 l’Ungheria -alla cui denominazione venne tolta, per l’occasione, quella di “Repubblica”- ha iniziato un’ escalation di violazioni del diritto europeo ed internazionale. Da convinto sostenitore e ammiratore dei regimi autoritari, il leader magiaro ha primariamente minacciato le libertà personali, limitando le libertà di espressione e di opinione, e prevedendo una fattispecie penale a tutela del discutibile, strumentalizzabile e difficilmente afferrabile bene giuridico della “dignità della nazione ungherese”. Ha abolito la figura del Commissario per la protezione dei dati personali, violando la privacy dei cittadini ungheresi per i quali -come nel resto dell’Unione Europea- le informazioni personali dovrebbero essere protette da un organismo indipendente. Ancora, ha introdotto limitazioni alla libertà di stampa, particolarmente incisive ed evidentemente incompatibili con un regime liberal-democratico, attraverso regolamenti che prevedevano sanzioni per  i giornalisti qualora i loro interventi e le loro produzioni non fossero ritenuti “equilibrati, accurati, obiettivi, e responsabili”.

Il governo, poi, ha, di fatto, criminalizzato i cittadini senza fissa dimora e le ONG, in particolare le associazioni impegnate nella difesa dei diritti umani e dei migranti. Ha progressivamente ridotto, inoltre, l’autonomia delle Università e la libertà degli stessi cittadini laureati, imponendo l’obbligo di lavorare in Ungheria per un certo periodo al termine del percorso di studi-pena il rimborso delle tasse universitarie allo Stato. Lo scorso dicembre, una legge del Parlamento ha conferito al capo del governo il potere di nominare e licenziare il direttore  di ogni teatro del paese, parallelamente alla creazione  del “Consiglio Statale della Cultura”, al fine di “governare, guidare e dirigere la vita culturale magiara secondo i suoi criteri strategici”. Uno dei principali bersagli dell’autocrate magiaro,  infine, è stata la magistratura. Infatti, la prima riforma del sistema giudiziario, tra le varie misure introdotte, abbassò l’età pensionabile dei giudici da 70 a 62 anni, con l’obiettivo di pensionare molti dei magistrati giudicanti in attività ed aprire le porte alla nomina di alcune figure vicine al partito. Alla dichiarazione d’illegittimità della Corte costituzionale ungherese, la maggior parte dei giudici destinatari della misura erano già stati sostituiti, potendo così questi soltanto adire – a tutela della propria specifica posizione- il Tribunale del lavoro; organo che, però, non ha la competenza per esaminare -ed eventualmente contraddire- un decreto presidenziale. A quel tempo, la stessa Commissione di Venezia -organo consultivo del Consiglio d’Europa- non disponeva delle basi legali per criticare un tale attacco all’indipendenza giudiziaria, e l’unico strumento a disposizione consisteva nella procedura d’ infrazione, in base alla quale poteva essere contestata la violazione delle norme dell’UE in materia di discriminazione anagrafica. Nonostante l’appello della Commissione abbia avuto esito positivo, ai giudici in oggetto è stata conferita soltanto una compensazione finanziaria- in luogo della più idonea restituzione all’ufficio.

Un’altra norma che preoccupò la Commissione di Venezia ha riguardato, invece, l’abolizione del Consiglio Superiore della Magistratura e la sua sostituzione con il nuovo Ufficio Giudiziario Nazionale. A capo di tale organo, una figura di ultima creazione, unica nel panorama europeo per il conferimento di ampissimi poteri, tra cui: l’iniziativa legislativa in campo giudiziario; il potere di proporre al Presidente della Repubblica la nomina e la revoca dei magistrati, oltre alla possibilità di stabilire le assegnazioni e il trasferimento di questi ultimi in caso di riorganizzazione del tribunale (in caso di rifiuto i magistrati sarebbero stati rimossi); la facoltà di nomina dei presidenti, dei vicepresidenti e dei capi divisione dei tribunali e delle corti d’appello; il potere di disporre l’attribuzione e il trasferimento dei casi da un tribunale all’altro. In sostanza, l’evidente disegno del governo era quello di creare un’amministrazione della giustizia che fosse, in parte, gestita dal nuovo Presidente dell’Ufficio Nazionale Giudiziario -eletto dal Parlamento-, e, in parte, dal Ministro della Giustizia; in questo modo, un membro del governo assumeva poteri amministrativi sugli stessi tribunali responsabili di emettere verdetti sulle violazioni commesse dall’esecutivo.[2]

Non fu un caso che la stessa Commissione sollecitò la revisione non solo delle due leggi in questione, ma anche della costituzione in generale, dopo che aveva già ammonito contro il rischio di derive antidemocratiche in seno alla magistratura, constatando l’assenza di norme costituzionali che garantissero l’indipendenza del potere giudiziario rispetto all’esecutivo e al legislativo -come la classica teoria montesquieuiana richiederebbe. Di fronte alle costanti violazioni dei Trattati dell’Unione e alle minacce alle libertà fondamentali, la Commissione Europea -e non solo- ha avviato, negli anni, una serie di procedimenti d’infrazione contro l’Ungheria dinanzi alla Corte di Giustizia Europea. Se è vero che un approccio così puntuale, caso per caso, ha permesso d’ esercitare pressioni sul governo di Orban affinché indietreggiasse su misure controverse- come, ad esempio, quella sull’introduzione di un sistema parallelo di tribunali amministrativi alle dirette dipendenze del Ministro della Giustizia, sospesa lo scorso maggio-, è altrettanto vero che la maggior parte degli strumenti esecutivi dell’UE si sono rivelati,  nella maggioranza dei casi, deboli ed inefficaci.[3]

Basterebbe considerare l’esito che ha avuto l’attivazione della procedura dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea, avviato il 12 settembre 2018 dopo l’approvazione della relazione della parlamentare olandese Judith Sargentini, che denunciava il rischio della violazione, in Ungheria, di almeno 12 diritti fondamentali. Allo stato attuale, la procedura non ha avuto seguito, in quanto il Consiglio europeo non ha constatato una “violazione grave e persistente dello Stato di diritto”. Quest’ impasse è la conseguenza di una procedura lenta, che segue un iter a tre fasi lungo e complicato (messa in mora, decisione, sanzione), e che, soprattutto, richiede l’unanimità per avviare la condanna; un risultato mai raggiunto, in ragione del fatto che molti politici all’interno del PPE hanno ripetutamente compromesso con il loro voto gli sforzi delle istituzioni europee. Solo circa un anno fa, nel marzo del 2019, quando il partito sovranista di Orban utilizzò, per una campagna propagandistica anti-migranti, un’immagine dell’ex Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ritratto insieme al  “nemico della patria” George Soros, Fidesz fu sospeso dal PPE e i suoi eurodeputati  persero il diritto di voto, nonostante la decisione di permanere nel gruppo.

Lo scontro tra Fidesz e PPE, però, si è riacceso nelle ultime settimane, dopo l’assunzione di ampi poteri ad libitum da parte del premier ungherese. In questo caso, tredici partiti e alcuni singoli politici di spicco del Partito Popolare hanno chiesto che Fidesz venisse espulso dalla famiglia del PPE. Ma tempestivamente il governo ungherese, nelle parole di Orbán, ha fatto sapere “di non avere tempo per queste fantasie” e che “non intende prendere sul serio le reazioni e le sanzioni dei colleghi europei”. Non solo, ma come in uno scenario teatrale in cui il virus rappresenta dramma e tragedia, è proprio l’attore ungherese che offre il colpo di scena tragicomico: dopo che 14 stati (tra i quali Italia, Francia, Germania e Spagna) avevano chiesto, attraverso una dichiarazione diplomatica, che l’Unione accertasse che la legislazione emergenziale ungherese non violasse la democrazia, i diritti fondamentali, lo Stato di diritto e le libertà di pensiero e di stampa, proprio il governo magiaro ha affermato d’ aver sottoscritto la dichiarazione. E’ calato il sipario sulla democrazia ungherese. Per Orban non poteva presentarsi un’opportunità migliore di quella offerta dall’emergenza globale, dove il panico e l’incertezza dilagano, per abbattere definitivamente le garanzie democratiche e dare forza al virus autoritario all’interno dell’Europa.

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[1] S. Bottoni, “Viktor Orbán, fenomenologia di un politico europeo”, Limesonline.com, 15 febbraio 2012. (https://bit.ly/2XPALpO)

[2] S. Granata-Menghini, “Ungheria, riforma del sistema giudiziario”, Magistraturademocratica.it, 29 marzo 2012. (https://bit.ly/2VLrNXJ)

[3] R. Daniel Kelemen “Europe’s Other Democratic Deficit: National Authoritarianism in Europe’s Democratic Union”, Government and Opposition,Volume 52, Special Issue 2 (Democracy without Solidarity: Political Dysfunction in Hard Times), pp. 211-238, aprile 2017 ( https://bit.ly/2xzUori)