Il rapporto SPACE I 2020 del Consiglio d’Europa descrive, ancora una volta, il pessimo stato in cui versano gli istituti penitenziari italiani. Il momento per intervenire non è più rinviabile. Qui i dati emersi dal rapporto, i fattori che destano maggiore preoccupazione e alcune proposte di riforma.

1. Introduzione

L’8 aprile è stato pubblicato il rapporto SPACE I 2020 [1]. Questo documento viene redatto annualmente nell’ambito del progetto Statistiques Pénales Annuelles du Conseil de l’Europe, con l’obiettivo di fornire informazioni sulle condizioni del sistema penitenziario in ognuno dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa [2]. I dati che compongono il rapporto sono forniti direttamente dalle amministrazioni penitenziarie di ogni Stato, le quali compilano a tale scopo un questionario predisposto dai componenti della Criminology Research Unit dell’Ecole des sciences criminelles dell’Università di Losanna. È bene precisare che i valori contenuti nel rapporto SPACE I 2020 sono riferiti alla data del 31/01/2020, per cui non tengono conto delle misure adottate per fronteggiare, all’interno degli istituti penitenziari, la diffusione della pandemia di SARS-CoV-2.

2. I dati che emergono dal rapporto SPACE I 2020 sull’Italia

Sebbene ciò non costituisca una novità – al contrario, rappresenta una patologia cronica [3] –, il dato più preoccupante è quello del sovraffollamento. Difatti, a fronte di una capacità formale di 54.052 posti negli istituti detentivi, che si riducono effettivamente a 50.692 a causa dell’inagibilità di 3.360 posti, i detenuti presenti sono 60.971 [tabella 3, dato 3B]. Tali numeri fanno schizzare la percentuale di sovraffollamento al 120,3% [tabella 16, dato 16C]: un dato che soccombe soltanto a quello della Turchia, con il triste record del 127,4%. Valori di questa portata non possono passare inosservati e, in effetti, le fonti giornalistiche più attente e sensibili al tema hanno prontamente informato di ciò i loro lettori [4]. Tuttavia, compulsando il rapporto si ricava un’informazione ancor più allarmante su una particolare categoria di detenuti: quella dei sottoposti a misura di sicurezza detentiva. I 197 posti regolamentari a disposizione [tabella 17, dato 17D] sono occupati da 355 persone [tabella 10, dato 10L], il che determina una spaventosa percentuale di sovraffollamento del 180,2%. In assenza di precise indicazioni, non è facile individuare quale tipologia di detenuti rientri in questa categoria; tuttavia, è presumibile ritenere che si tratti di coloro che sono assegnati a una colonia agricola o ad una casa di lavoro (art. 215, comma secondo, n. 1), cod. pen.). In ascesa rispetto agli anni precedenti, poi, è il tasso di crescita della popolazione detenuta, che attualmente risulta di 101,2 detenuti ogni centomila abitanti [tabella 3, dato 3C]. Infatti, ancorché nel lungo periodo si riscontri una decisa diminuzione, quantificata in 12,4 punti percentuali di differenza rispetto al valore del 2010 [tabella 4, penultima colonna], dal 2016 si è registrata un’inversione di tendenza che solo nell’ultimo anno è coincisa con un aumento dell’1,6% [tabella 4, ultima colonna]. L’unica nota positiva deriva dal fatto che il dato italiano è molto inferiore alla media calcolata rispetto a tutti gli Stati del Consiglio d’Europa, pari a 124 detenuti ogni centomila abitanti [tabella 3, dato 3C]. Inoltre, le statistiche relative alla detenzione in assenza di una condanna definitiva evidenziano anch’esse una perdurante criticità della giustizia penale italiana. È necessario sottolineare che in questo gruppo rientrano sia le persone sottoposte alla misura cautelare perché in attesa di giudizio [tabella 8, dato 8C], sia le persone che scontano una pena detentiva in forza di una sentenza che non è ancora diventata definitiva perché sottoposta (o sottoponibile) ad impugnazione [tabella 8, dato 8G]. Al di là della classificazione formale, il dato emergente è che il 31,1% dei detenuti [tabella 8, dato 8B] – ossia 18.937 persone [tabella 8, dato 8A] – non sconta una pena definitiva. Non stupisce che questo dato sia superiore alla media registrata nell’ambito della grande Europa, che si attesta al 25,7% [tabella 8, dato 8B]. Merita di essere posto in evidenza, poi, quello relativo all’età dei detenuti. In Italia, 15.832 reclusi, pari al 26% del totale, hanno dai 50 anni in su [tabella 6, dati 6C e 6D]. In percentuale, è il dato peggiore tra tutti gli Stati del Consiglio d’Europa. Più specificatamente, il 4,1% dei detenuti ha più di 65 anni [tabella 6, dato 6F].

Una statistica rilevante ai fini del presente scritto (v. infra § 3.1.) riguarda il tipo di reato commesso dai detenuti. È necessario sottolineare che questi dati riguardano solo i condannati in via definitiva, perché per gli altri è giustamente tutelata la presunzione di innocenza (art. 6, paragrafo 2, Convenzione EDU). Di conseguenza, le seguenti percentuali sono calcolate sulla base di 41.679 persone [tabella 8, dato 8K]. I reati più comuni, per i quali sono stati condannati 13.114 detenuti [tabella 9, dato 9O], che rappresentano il 31,5% del totale [tabella 9, dato 9P], sono legati alla droga; altri 7.097 detenuti [tabella 9, dato 9A] sono stati condannati per omicidio ovvero per tentato omicidio e rappresentano il 17% del totale [tabella 9, dato 9B]; altri 6.281 detenuti [tabella 9, dato 9I] sono stati condannati per rapina e rappresentano il 15,1% del totale [tabella 9, dato 9J]. Correlata al tipo di reato commesso è la durata della sanzione irrogata. Leggendo il rapporto SPACE I 2020, si evince che i condannati ad una pena detentiva fino a tre anni sono 9.806 [tabella 10, dati 10E+10F], ossia il 23,5% [tabella 11, dati 11E+11F]; tra questi, 1600, pari al 3,8% [tabella 11, dato 11E], sono stati condannati ad una pena inferiore a 1 anno [tabella 10, dato 10E]. I condannati all’ergastolo sono 1806 [tabella 10, dato 10K] e rappresentano il 4,3% del totale [tabella 11, dato 11K]. Un dato impietoso per l’amministrazione penitenziaria italiana riguarda il numero dei detenuti deceduti all’interno delle patrie galere. Nel periodo di competenza dello studio si sono registrate 145 morti [tabella 28, dato 28A], di cui 90 morti naturali [tabella 28, dato 28K], 2 omicidi [tabella 28, dato 28C] e 53 suicidi [tabella 28, dato 28E]; di questi ultimi, 31 [tabella 28, dato 28I] sono stati commessi da detenuti non sottoposti a condanna definitiva. Ciò è un chiaro ed inequivocabile indice del malessere che deriva dall’essere sottoposti alla privazione della libertà personale e dalle preoccupanti condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari, notevolmente aggravate dalla situazione di sovraffollamento. Un’ulteriore conferma di quest’affermazione si rinviene nel tasso di suicidi ogni diecimila persone, il quale è di 8,7 tra i detenuti [tabella 28, dato 28N] e di 0,64 tra le persone libere [5]. Per concludere, nel rapporto è indicato il numero degli impiegati dell’amministrazione penitenziaria statale, distinti in base alla loro mansione. In particolare, dal documento si evince che in Italia, su 41.286 impiegati totali [tabella 19, dato 19A], solo l’1,9% – ossia 788 persone [tabella 19, dato 19J] – è occupato nelle attività educative [tabella 20, dato 20I]. Questa percentuale è molto inferiore alla media tra tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, la quale si attesta al 3,3% [tabella 20, dato 20I]. La maggior parte, nello specifico 34.815 persone [tabella 19, dati 19F e 19G], che rappresentano l’84,3% del totale [tabella 20, dati 20E e 20F], appartiene al corpo di Polizia penitenziaria. L’ultima tabella del rapporto SPACE I 2020, invece, riassume i dati relativi alle spese che il sistema penitenziario comporta annualmente per il bilancio di ogni Stato. L’amministrazione penitenziaria italiana, nel 2019, ha necessitato di quasi 3 miliardi di euro [tabella 33, dato 33G]. Inoltre, si stima che la detenzione giornaliera di ogni persona costi € 131,40 [tabella 33, dato 33A].

3. Gli elementi caratterizzanti il sistema penitenziario italiano

La principale criticità del sistema penitenziario italiano è il sovraffollamento, che ha raggiunto – di nuovo – un livello talmente grave da rendere la sanzione detentiva un trattamento inumano e degradante, così come si evince, tra l’altro, anche dall’elevatissimo tasso di suicidi registrato tra le persone recluse (v. supra § 2.6.). Innanzitutto, bisogna confutare la semplicistica e insipiente affermazione di coloro che propongono, allo scopo di ridurre il sovraffollamento, di costruire nuovi edifici penitenziari. Il numero complessivo di reati che vengono denunciati dalle Forze di Polizia all’Autorità Giudiziaria è in costante diminuzione, almeno a partire dal 2010. Tale dato è ben evidenziato nello studio, elaborato dall’ISTAT, intitolato Delitti, imputati e vittime dei reati [6]. In particolare, dalla tavola 1.1 si ricava che sono diminuiti sensibilmente gli omicidi e i reati di tipo predatorio. Già questa constatazione sconfessa le pressanti richieste di quella canea tonitruante che, per contrastare la propria errata percezione di assenza di sicurezza sociale, vorrebbe costruire nuovi e numerosi istituti di detenzione. È utile, a questo proposito, ricordare che la «suprema metafora dell’ordine, della sicurezza e della fiducia: “si dorme con le porte aperte”» [7], gabellata per reale dal regime fascista – e che altri vorrebbero recuperare per i tempi odierni –, in effetti non è altro che una metafora. Un altro falso mito, legato anch’esso alla percezione di insicurezza sociale e conseguentemente correlato alla richiesta di costruzione di nuovi penitenziari, è alimentato da coloro che ritengono che i limiti edittali delle pene detentive in Italia siano troppo bassi, e per questo necessitino di significativi aumenti. In realtà, questa propalazione viene smentita dalla lettura dei dati contenuti nel rapporto in questione. Nel nostro Paese, le condanne definitive che irrogano una pena superiore a 3 anni di reclusione costituiscono il 76,5% di quelle definitive totali [tabella 11, dati 11G+11H+11I+11J+11K]. Invece, la media tra tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa è decisamente inferiore, perché risulta essere il 57,7% delle stesse. Non è un caso che, recentemente, la Corte costituzionale italiana abbia rivolto un monito al legislatore affinché compisse, in relazione ai delitti contro il patrimonio, una «valutazione, complessiva e comparativa, dei beni giuridici tutelati dal diritto penale e del livello di protezione loro assicurato», in quanto, a seguito degli interventi legislativi del 2017 e del 2019 che hanno aumentato i limiti edittali di questa tipologia di reati, la «pressione punitiva attualmente esercitata [..] è ormai diventata estremamente rilevante» (sent. 190/2020). Poste queste premesse, le quali di per sé sole escludono la fondatezza logica delle richieste di aumentare il ricorso all’instrumentum regni rappresentato dal diritto penale, è necessario capire perché, mentre diminuiscono i reati commessi, il tasso della popolazione detenuta cresce (v. supra § 2.2.). Probabilmente – ma solo in minima parte – questa discrasia è dovuta alla durata eccessiva dei procedimenti penali, il che determina l’ingresso negli istituti detentivi a distanza di tempo dalla commissione dell’illecito. Tuttavia – ed è questa la causa del rilevato contrasto tra i dati –, non si può ignorare che la maggior parte dei reclusi in Italia è costituita da persone inquisite per la violazione della normativa sugli stupefacenti (v. supra § 2.5.), tipologia di reati che risulta essere in crescita secondo lo studio ISTAT prima citato. Tale correlazione risulta anche dalle statistiche contenute nell’Undicesimo Libro Bianco sulle droghe [8], da cui si evince che, nel 2019, il 29,60% degli ingressi negli istituti penitenziari [9] ha riguardato persone accusate di aver violato la disposizione di cui all’art. 73 del D.P.R. 309/1990 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), il quale punisce chi produce, traffica e detiene illecitamente sostanze stupefacenti o psicotrope. A questo punto, non v’è chi non veda che il motivo preminente per il quale gli istituti di detenzione italiani sono gravemente sovraffollati è legato alla scelta politico-criminale di sanzionare con la pena detentiva gli autori degli illeciti in materia di stupefacenti. Peraltro, tra le prime urgenze da affrontare una riguarda proprio la popolazione detenuta tossicodipendente, la quale necessita di una gestione particolarmente attenta dal punto di vista sanitario. I detenuti che soffrono di questa patologia sono 16.934, ossia il 27,87% del totale dei reclusi al 31/12/2019 [10]. Per molte di queste persone – se non per la totalità –, la reclusione è soltanto un fattore di ulteriore disagio. Questo specifico aspetto è stato affrontato anche durante i lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale [11], dai quali è scaturito il monito secondo il quale «si rende senz’altro necessario che si creino le condizioni affinché le persone alcol o tossicodipendenti tendenzialmente non entrino nel circuito penitenziario, evitandone l’ingresso già in fase cautelare» [12]. Sulla questione del sovraffollamento, poi, incide notevolmente anche il fattore dei detenuti non condannati in via definitiva (v. supra § 2.3.). Una riduzione del numero delle detenzioni preventive non solo è necessaria per diminuire il valore del sovraffollamento, bensì anche – e soprattutto – per non lasciare inattuato il principio costituzionale di non colpevolezza sino alla condanna definitiva, statuito dall’art. 27, comma secondo, Cost. Da questo punto di vista, sono impietosi i dati che ci vengono forniti dall’associazione Errorigiudiziari.com [13], la quale ha registrato, dal 1992 al 2020, ben 29.452 casi di ingiusta detenzione, ossia una media di più di mille persone che ogni anno subiscono la custodia cautelare pur essendo innocenti. Per incidere efficacemente su questo dato, è necessario un cambiamento culturale che riporti al centro dell’attenzione del lavoro della magistratura, in particolare di quella requirente, il rispetto del valore della persona umana in quanto tale e delle garanzie saldamente connesse, a prescindere dalle azioni riprovevoli che potrebbe aver compiuto. A questo proposito, è di grande auspicio il recente recepimento nell’ordinamento nazionale della Direttiva UE 2016/343 sul rafforzamento del principio di presunzione di innocenza, con maggiore attenzione per ciò che riguarda i limiti introdotti alla facoltà di fare dichiarazioni in pubblico sulla presunta colpevolezza dell’indagato o dell’imputato (art. 4).

Un ulteriore aspetto del sistema penitenziario italiano, che lo connota negativamente, è quello riguardante la promozione e l’organizzazione delle attività trattamentali all’interno degli istituti penitenziari, le quali sono necessarie per dare attuazione concreta al principio di rieducazione a cui le pene devono tendere secondo il dettato costituzionale (art. 27, comma terzo, Cost.). Sembra paradossale che gli impiegati dell’amministrazione penitenziaria responsabili delle attività educative siano soltanto 788 (v. supra § 2.7.), ossia uno ogni 77 detenuti. Infatti, di fronte ad un perspicuo dovere di solidarietà sociale, che spetta alla Repubblica attuare per rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (artt. 2 e 3, Cost.), non è tollerabile che l’onere di soddisfare questa esigenza ricada quasi integralmente sulle spalle della moltitudine di volontari che ogni giorno si reca negli istituti detentivi per svolgere attività risocializzanti. Quantunque ciò sia ammirevole, lo Stato deve intervenire con i suoi strumenti e le sue facoltà. A questo fine, sarebbe interessante conoscere (ma il rapporto non ne dà conto) di quali elementi è composta – e di quanto ognuno di esso incida su – la spesa giornaliera necessaria per ogni detenuto (v. supra § 2.8.). Infatti, è molto probabile che solo una quota minima sia destinata a coprire i costi delle attività educative [14].

4. Proposte per un futuro migliore

Il problema del sovraffollamento ha rappresentato un ostacolo significativo all’attuazione, negli istituti penitenziari, delle misure di contenimento per la prevenzione della diffusione del virus SARS-CoV-2. Infatti, le misure introdotte per diminuire il numero dei detenuti si sono rivelate conclusivamente inadeguate al raggiungimento dello scopo prefissato [15]. Per questo motivo, da più parti si è sollevato un monito affinché il legislatore deliberasse strumenti maggiormente incisivi. Tra tanti, i più significativi hanno riguardato l’invito al Parlamento a promulgare una legge di amnistia e di indulto e a reintrodurre la liberazione anticipata speciale [16], la quale prevede, a determinate condizioni, una detrazione di settantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. Questi provvedimenti, utili e necessari nel breve periodo, si rivelano, tuttavia, insufficienti a lungo termine. In particolare, per ciò che riguarda l’amnistia e l’indulto, non si può non tener conto del loro effetto limitato al tempo passato e, soprattutto, del peculiare meccanismo di approvazione [17], il quale richiede una maggioranza talmente elevata da non poter essere verosimilmente raggiunta a fronte di quello che sembrerebbe il diverso sentimento della maggior parte dei parlamentari. Di fronte all’impietosa situazione che ci descrive il rapporto SPACE I 2020, sorge l’esigenza di pensare una riforma sistematica dell’esecuzione penale capace di indurre il legislatore a compiere un’inversione di rotta radicale rispetto alle scelte politiche in materia penitenziaria, anche al fine di combattere quelle false ed esiziali convinzioni da cui promanano le pessime riforme populiste con le quali si vuole dissetare l’opinione pubblica sitibonda di vendetta [18]. Il cambio di approccio dovrebbe perseguire due obiettivi principali: risolvere definitivamente il problema del sovraffollamento e consegnarci una disciplina più aderente alle statuizioni della Costituzione, in particolare garantendo un’ampia disponibilità di attività trattamentali. In realtà, un modello costituzionalmente orientato dell’esecuzione penale è stato disegnato nel corso dei lavori degli Stati Generali dell’esecuzione penale; tuttavia, molte delle soluzioni prospettate non sono state trasferite dal legislatore nell’ordinamento positivo. Risulta opportuno confrontarsi e assorbire quanto di utile da quelle proposte perché, dalle considerazioni che precedono, l’individuazione di una decisa soluzione non è più differibile. L’auspicato effetto di riduzione del numero dei detenuti negli istituti penitenziari passa anche per un profondo mutamento culturale della percezione delle misure alternative alla detenzione, affinché sia in grado di sconfiggere l’idiosincrasia ideologica di chi ritiene che queste ultime non siano sanzioni sufficientemente afflittive. Perciò, la riforma deve consistere nella creazione di un sistema di esecuzione penale esterna che sia «una autonoma ed efficace risposta sanzionatoria informata ai principi di individualizzazione, di responsabilizzazione e di progressivo reinserimento del reo nel contesto sociale di riferimento» [19]. La traduzione pratica di questo obiettivo presuppone la piena responsabilizzazione del detenuto. In questo senso, si deve rilevare che un efficace sistema rieducativo non può basarsi sul paradigma del buon detenuto, bensì deve essere diretto a formare – o a riformare – il buon cittadino. In seguito, nell’ottica riformatrice, le misure alternative devono diventare la sanzione penale da applicare, ove possibile, in via principale e, allo stesso tempo, quella detentiva deve essere relegata a strumento sussidiario, esclusivamente per le sole forme più gravi di pericolosità sociale. In più, la revisione deve riguardare il contenuto sostanziale così come il meccanismo processuale di applicazione delle misure alternative. In particolare, avendo riguardo al primo profilo, si devono valorizzare gli effetti risocializzanti che sono connaturati ad esse. Un esempio paradigmatico è rappresentato dalla detenzione domiciliare, la quale funge da strumento deflativo del sovraffollamento ma perde ogni potenzialità rieducativa nei confronti di coloro che non hanno la possibilità di svolgere autonomamente attività di studio o ricreative allo stesso modo in cui dovrebbero essere garantite ai reclusi. È necessario, allora, che la concessione della detenzione domiciliare sia accompagnata dall’elaborazione di un programma di intervento risocializzativo in favore del condannato. Per ciò che concerne il secondo profilo, ossia quello procedurale, è necessario estendere (a quattro anni di sanzione detentiva) la soglia entro cui poter concedere una misura alternativa direttamente dalla libertà. Il rafforzamento così delineato deve essere congiunto, poi, anche al definitivo superamento delle preclusioni assolute alla concessione delle misure alternative e degli altri benefici penitenziari, previste, principalmente, dagli artt. 4-bis e 58-ter della L. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà). Infatti, la valutazione individuale e in concreto del percorso rieducativo del condannato non può essere impedita in ragione del mero titolo di reato commesso ovvero dello status del soggetto. Questa direzione sembra ormai essere stata intrapresa anche dalla Corte costituzionale, la quale, nel tempo di un anno e mezzo, ha dapprima esteso la concedibilità dei permessi premio ai condannati, anche se non collaboranti con la giustizia, per uno dei reati contemplati dall’art. 4-bis, comma primo, L. 354/1975 (sent. 253/2019) e, in un secondo momento – invero, per ora, solo anticipatamente [20] –, ha affermato l’incostituzionalità della disciplina che preclude l’accesso alla liberazione condizionale per gli ergastolani ostativi in assenza di collaborazione. I cambiamenti finora tratteggiati potrebbero migliorare sensibilmente il nostro sistema penitenziario. Tale risultato, peraltro, potrebbe essere meno che un’utopia. Infatti, gli stanziamenti di risorse che provengono dal piano Next Generation EU dell’Unione europea e la contestuale presenza al Ministero della Giustizia della professoressa Marta Cartabia – come noto, estremamente sensibile alle problematiche della detenzione – possono farci sperare in una palingenesi dell’universo penitenziario italiano.


[1] Il documento è disponibile al seguente link.
[2] Ulteriori informazioni sono disponibili al seguente link.
[3] È sufficiente citare la sentenza Torreggiani e altri contro Italia, Corte EDU, 8 gennaio 2013, la quale ha condannato l’Italia per il grave sovraffollamento degli istituti detentivi.
[4] Segnalo D. Aliprandi, Rapporto Space: l’Italia tra i primi posti per detenuti in attesa di giudizio e record nella Ue per sovraffollamento, in Il Dubbio del 09/04/2021; A. Stella, Sovraffollamento nelle carceri, Italia bocciata dall’Europa: 120 detenuti ogni 100 posti, in Il Riformista del 09/04/2021.
[5] Questo dato l’ho ricavato indirettamente dalle statistiche presenti sulla piattaforma I.Stat. Sebbene si riferisca all’anno 2018, ultimo periodo disponibile, non ritengo che quello del 2019 possa essere tanto differente da impedire una siffatta comparazione.
[6] Il documento è disponibile al seguente link.
[7] Consiglio la lettura del testo da cui è tratta la citazione: L. Sciascia, Porte aperte, Adelphi, Milano, 1987.
[8] Il documento è disponibile al seguente link.
[9] Cfr. Tab. 1 – Ingressi negli istituti penitenziari e ingressi per violazione art.73, d.P.R. 309/90.
[10] Cfr. Tab. 4 – Detenuti presenti e detenuti tossicodipendenti al 31/12 – Valori assoluti e percentuali.
[11] Il documento è disponibile al seguente link.
[12] Cfr. Parte terza, punto 2.1 – Soggetti affetti da dipendenza patologica, pagg. 34 e ss.
[13] I dati completi sono disponibili al seguente link.
[14] Cfr. il seguente articolo di giornale.
[15] Per un’analisi approfondita, si possono leggere i seguenti articoli pubblicati su Extrema Ratio: G. Coppola, Il Covid-19 in carcere: un’emergenza nell’emergenza, 25/11/2020; L. Farneti,  Emergenza Covid-19 nelle carceri. Intervista a Gianpaolo Catanzariti, 19/11/2020.
[16] La liberazione anticipata speciale è stata introdotta nell’ordinamento dall’art. 4 D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito, con modificazioni, in L. 21 febbraio 2014, n. 10, al fine di fornire una prima soluzione alla condanna dell’Italia scaturita dalla sentenza Torreggiani prima citata. Il beneficio, tuttavia, è stato previsto per un biennio.
[17] V. art. 79 Cost., come modificato dalla L. cost. 6 marzo 1992, n. 1.
[18] Per approfondire: E. Amodio, A furor di popolo. La giustizia vendicativa gialloverde, Donzelli Editore, Roma, 2019.
[19] V. documento finale Stati Generali dell’esecuzione penale, Parte quinta – L’esecuzione esterna: meno recidiva e più sicurezza, punto 3. – Verso una gestione sociale delle misure di comunità, pp. 68 e ss.
[20] Il documento è disponibile al seguente link.