Lo scorso 30 dicembre, durante uno scambio con il pubblico ministero nel corso dell’udienza, l’avvocato Simona Giannetti, penalista del foro di Milano, si è vista silenziare con un clic dal giudice. Tale vicenda ci permette di riflettere, ancora una volta, sul tema del processo penale da remoto.

Partiamo dall’inizio. I giornali più attenti ai temi della giustizia hanno riportato la vicenda, ma lei non ha voluto divulgare in quale tribunale si è svolta

Innanzitutto, ci tengo a precisarne la ragione: quello che conta non è chi abbia commesso il fatto, ma che questo sia successo.

Cos’è successo, di preciso?

In un momento di dialogo un po’ più vivace tra le parti, la difficoltà di gestire la sovrapposizione delle voci ha indotto il giudice a “spegnere” l’avvocato. Ciò che mi è accaduto è la prova che il processo penale, in videoconferenza, non può svolgersi. Innanzitutto, è da notare che il giudice ha fatto una scelta che, se le parti fossero davvero alla pari, non dovrebbe nemmeno essere possibile. Anche se avesse zittito entrambe sarebbe stato sbagliato: il giudice, in udienza, può invitare le parti ad abbassare i toni, ma non può impedire che parlino. La differenza tra il processo in presenza e il processo telematico è che quest’ultimo, di fatto, è solo un tentativo di fingere che un processo ci sia. Tuttavia questa finzione non è realizzabile, poiché lo strumento tecnologico non è in grado di garantire il contraddittorio, che è l’anima del processo. Questo, perché può accadere che le parti (in questo caso io ed il PM, che stavamo discutendo sul deposito di una prova) abbiano un confronto acceso, fino a sovrapporsi con le voci. Il problema della sovrapposizione delle voci in presenza è una situazione facilmente controllabile; in videoconferenza, invece, non disponiamo di una tecnologia adeguata a sostenere un dibattito acceso. È un dettaglio che dobbiamo far notare, poiché la videochiamata – citando il presidente dell’UCPI Caiazza – è uno strumento “ontologicamente incompatibile” con il processo penale.

Quindi non è un semplice problema di regolamentazione, come pure sembra sostenere qualcuno?

Esattamente. Il processo da remoto non è processo. Il processo vero e proprio è quello che si celebra in aula alla presenza dell’imputato, dell’avvocato, del pubblico ministero e del giudice. È quello in cui possono esserci toni accesi che il giudice può chiedere vengano abbassati. È quello in cui le carte si tengono in mano e non si devono mandare il giorno precedente, perdendo così – in un colpo solo – sia la possibilità di tenerle celate fino al momento più opportuno, sia la possibilità di non usarle, il che inficia enormemente le strategie difensive, basate anche sull’improvvisazione. Il rito che non rispecchia queste caratteristiche è soltanto una riunione prefissata per parlare di un argomento specifico. Secondo me, regolamentare una cosa che non esiste significa riconoscerla come esistente. Per questo, è importante che gli episodi verificati durante la celebrazione di udienze da remoto non siano legittimati dalla prassi: se un avvocato venisse silenziato per tre minuti, l’udienza potrebbe anche essere nulla per mancanza della difesa.

Per non parlare del processo cartolare. A proposito, recentemente, il Consiglio di Stato ha ritenuto il processo cartolare “coatto” nel processo amministrativo in contrasto con gli artt. 111 e 24 Cost., facendo peraltro esplicito riferimento al processo penale, che è improntato al principio di oralità e presidiato dal principio del contraddittorio inteso in senso “forte” (Cons. Stato, VI Sez. 20 aprile 2020).

Certamente. Tuttavia, nello scambio cartolare il contraddittorio non c’è. Se il primo abominio è il processo penale in videoconferenza, subito dopo ci sono il processo d’appello e d’assise d’appello cartolari. Basti pensare che tale forma di contraddittorio può essere utilizzata anche nei processi in cui l’imputato rischia la pena dell’ergastolo: la pubblica accusa, entro i 15 giorni precedenti all’udienza, ha la possibilità di depositare le sue conclusioni, a cui la difesa può opporre le proprie censure nei soli 5 giorni successivi al deposito. Probabilmente, non ci sarà neanche il tempo per leggere tutti i documenti. Allora, come tutelare le garanzie dell’imputato? Non è possibile, perché non si possono riassumere le conclusioni orali di un avvocato in un documento scritto. Già un atto d’appello, di solito, è lungo circa 150-200 pagine, dato che riassume un processo durato mesi. Come si fa a racchiuderlo in un atto singolo? Il problema è che (purtroppo) è stato deciso di estendere alla corte d’appello la disciplina del processo in Corte di Cassazione.

Nonostante si tratti di un processo di merito…

È impossibile pensare di poter equiparare la discussione sulla legittimità, che si fa in Cassazione, a quella di merito, che si svolge in corte d’appello. Certo, non ci sarà stata rinnovazione dibattimentale, perché quando c’è questa, chiaramente, non si fa il processo cartolare. Ma non è detto che, se non si ha rinnovazione, non si ha nulla da aggiungere: possono comunque esserci nuovi motivi e nuove produzioni documentali; magari non nuovi testimoni, ma ciò non vuol dire che il secondo grado, senza rinnovazione dibattimentale, non vale niente. A questo punto, dovremmo quasi ringraziare il Ministro se mantiene il secondo grado, pur lasciando la sola possibilità di scrivere una “letterina” di due righe. Ho letto una delle osservazioni fatte alla Camera nel novembre 2020 da Nicola Russo, consigliere della Corte d’Appello di Napoli, sulle modifiche al processo: ebbene, il processo penale cartolare era stato sollecitato dagli stessi magistrati, addirittura sostenendo, tra le varie questioni in favore di una velocizzazione del processo, l’opportunità di introdurre “un bel processo cartolare, così gli avvocati non verrebbero più in aula!”. Il punto è che il processo penale cartolare in corte d’appello (ripeto, una corte di merito) è la prova provata che l’avvocato viene percepito come un soggetto fastidioso e, soprattutto, che secondo i magistrati l’attività dell’avvocato allunga i tempi del procedimento. Questo è perfettamente coerente con la scelta di svolgere, nel caso del processo cartolare in corte d’appello, la camera di consiglio in videoconferenza. Stiamo parlando di un collegio – dove c’è addirittura una giuria popolare – che non si riunisce nella stessa stanza, con tutte le difficoltà che ne derivano. Questa è un’altra prova del cedimento del processo d’appello, se ancora ce ne fosse bisogno. Non solo si parla e si discute tramite “letterine”, ma c’è anche il termine insostenibile dei 5 giorni, durante i quali l’avvocato dovrebbe leggere le conclusioni del PM e scrivere le proprie. Ma un conto è prepararle per discuterle oralmente in udienza, con tutto il tempo necessario a disposizione, altra cosa è doverle preparare per iscritto in un così breve lasso di tempo, nel quale ovviamente si possono avere anche altre udienze, altre scadenze, altri impegni. Per di più, magari, le conclusioni del PM sono contenute in 250 pagine, a cui bisogna rispondere almeno con il doppio. È difficile, quindi, pensare che tale riforma sia compatibile con il diritto di difesa.

E con la necessaria pubblicità del processo, come ha sottolineato il prof. Vittorio Manes [1].

Certo, assolutamente. Per me la pubblicità è essenziale, tant’è che ne ho fatto anche una questione di illegittimità in un’udienza ad Avezzano, richiamando la segretezza di tale forma di processo. La pubblicità del processo viene meno ogni volta che ci sono la videoconferenza – il «processo da remoto», se vogliamo continuare a chiamarlo così – e, chiaramente, il processo cartolare. Quest’ultimo, oltre che in camera di consiglio, si svolge anche per i dibattimenti, che invece dovrebbero essere pubblici. Quindi, salvo che non ci sia una rinnovazione dibattimentale, facciamo diventare il dibattimento una camera di consiglio «di carta». Il punto è che, in questi termini, la segretezza sacrifica il controllo sulla corretta amministrazione della giustizia. Ipotizziamo un processo in corte d’assise d’appello, in cui voglio far valere che il testimone sta dicendo il falso ed il presidente non lo recepisce. Il fatto che il processo sia pubblico garantisce, alla stampa e a tutte le persone che vogliono entrare nell’aula, di assistere all’esame della testimonianza per poi farsi un giudizio sulla sentenza, sulla base di quello che si è visto. Il cittadino può correttamente valutare il buon andamento della pubblica amministrazione – in questo caso, il corretto esercizio dell’amministrazione della giustizia – solo se ha partecipato all’esame delle prove dichiarative; altrimenti, come fa a giudicare la correttezza o meno di quella sentenza? E questo, ovviamente, vale per tutte le strutture. Nel mio caso, ad esempio, quando è accaduto il fatto, il primo pensiero è stato quello di essere sola con il giudice, il PM ed il mio assistito: nessuno era presente nel momento in cui la difesa veniva stracciata. Questa è una grave violazione del diritto dei cittadini – dato che la sentenza è emessa nel nome del popolo italiano – a prendere visione del corretto esercizio dell’amministrazione, ed anche del diritto di difesa, che è un diritto di tutti. Io penso che del diritto di difesa i politici facciano bene ad interessarsi, perché è un diritto di tutti coloro che un giorno potrebbero trovarsi in aula e aver bisogno di un avvocato. 


[1] https://dirittodidifesa.eu/processo-penale-online-opinioni-a-confronto/